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il magnifico matteo maria boiardo testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie e in versi, operaomnia #


SONETTI E CANZONE
DEL
POETA CLARISSIMO
MATTEO MARIA BOIARDO
CONTE DI SCANDIANO


LIBRI TRE



MATTHÆI MARIÆ BOIARDI
COMITIS SCANDIANI POETÆ CLARISSIMI
AMORUM LIBER PRIMUS


I.

Amor, che me scaldava al suo bel sole
Nel dolce tempo de mia età fiorita,
A ripensar ancor oggi me invita
Quel che alora mi piacque, ora mi dole.

Cosí racolto ho ciò che 'l pensier fole
Meco parlava a l'amorosa vita,
Quando, con voce or leta or sbigottita,
Formava sospirando le parole.

Ora de amara fede e dolci inganni
L'alma mia consumata, non che lassa,
Fuge sdegnosa il puerile errore.

Ma, certo, chi nel fior de' soi primi anni
Sanza caldo de amore il tempo passa,
Se in vista è vivo, vivo è sanza core.


II.

Non fia da altrui creduta e non fia intesa
La celeste beltà de che io ragiono,
Poiché io, che tutto in lei posto mi sono,
Sí poca parte ancor n'hagio compresa.

Ma la mia mente che è di voglia accesa
Mi fa sentir nel cor sí dolce sono
Che il cominciato stil non abandono,
Benché sia disequale a tanta empresa.

Cosí comincio; ma nel cominciare
Al cor se agira un timoroso gielo
Che l'amoroso ardir da me diparte.

Chi fia che tal beltà venga a ritrare?
On qual inzegno scenderà dal cielo
Che la descriva degnamente in carte?


III.

Tanto son peregrine al mondo e nove
Le dote in che costei qui par non have,
Che solo intento al bel guardo suave
A l'alte soe virtù pensier non move.

Ma piú non se ralegra el summo Jove
Aver fiorito el globo infimo e grave
Di vermiglie fogliete e bianche e flave,
Quando fresca rogiada el ciel ne piove;

Né tanto se ralegra aver adorno
Il ciel di stelle, e aver creato il sole
Che gira al mondo splendido d'intorno,

Quanto creato aver costei, che sòle
Scoprir in terra a meza notte un giorno
E ornar di rose il verno e di viole.


IV.

Ordito avea natura il degno effetto
Ch'or se dimostra a nostra etade rea,
Ne l'amoroso tempo in che volea
Donar a li ochij umani alto diletto.

Ragiunti insieme al piú felice aspetto
Se ritrovarno Jove e Citerea
Quando se aperse la celeste idea,
E diette al mondo el suo gentil concetto.

Sieco dal ciel discese cortesia,
Che da le umane gente era fugita,
Purità sieco, e sieco ligiadria.

Con lei ritorna quella antiqua vita
Che, con lo effecto, il nome de oro avia,
E con lei inseme al ciel tornar ce invita.


V.

Novellamente le benegne stelle
Escon da l'oceáno al nostro clima,
La terra il duol passato piú non stima,
E par che il verde manto rinovelle.

Amor, che le dorate sue quadrelle
Piú tien forbite, e il suo potere in cima,
Questa beltà, non mai veduta in prima,
Vuol dimostrar con l'altre cose belle.

Con bianchi zigli e con vermiglie rose,
Co' i vaghi fiori e con l'erbetta nova
L'ha dimostrata al parangone Amore.

Cosí natura e lui fra sé dispose
Veder d'ogni beltà l'ultima prova,
E dar il pregio a lei come a magiore.


VI.

Il canto de li augéi di frunda in frunda,
E lo odorato vento per li fiori,
E lo schiarir di lucidi liquori
Che rendon nostra vista piú jucunda,

Son perché la natura e il ciel secunda
Costei, che vuol che 'l mondo se inamori;
Cosí di dolcie voce e dolci odori
L'aer, la terra è già ripiena e l'unda.

Dovunque e passi move, on gira il viso,
Fiamegia un spirto sí vivo d'amore,
Che avanti a la stagione el caldo mena.

Al suo dolce guardare, al dolcie riso
L'erba vien verde e colorito il fiore,
E il mar se aqueta e il ciel se raserena.


VII.

Aventurosa etade in cui se mira
Quanto mirar non puote uman pensero,
Tempo beato e degnamente altero
A cui tanto di grazia el Cielo aspira,

Che solo a' zorni toi donar desira
Uno effetto celeste, un ben intero,
Qual non ha questo on quell'altro emispero,
Né tutto quel che 'l Sol, volando, agira:

Quella stagion, che fu detta felice,
E par che al nome de auro ancor se alumi,
Quanto può invidïarte, o nostra etade!

Ché se nectare avea ben ne i soi fiumi
E melle avean le quercie e le myrice,
Già mai non ebbe lei tanta beltade.


VIII.
 
[ MANDRIALIS ]

Cantati meco, inamorati augelli,
Poi che vosco a cantar Amor me invita;
E voi, bei rivi e snelli,
Per la piagia fiorita
Teneti a le mie rime el tuon suave.

La beltà, de che io canto, è sí infinita,
Che il cor ardir non have
Pigliar lo incarco solo:
Ché egli è debole e stanco, e il peso è grave.

Vaghi augeleti, voi ne gite a volo,
Perché forsi credeti
Che il mio cor senta duolo,
E la zoglia che io sento non sapeti.

Vaghi augeleti, odeti:
Che quanto gira in tondo
Il mare, e quanto spira zascun vento,
Non è piacer nel mondo
Che aguagliar se potesse a quel che io sento.


IX.
 
[ AD AMOREM ]

Alto diletto, che ralegri il mondo
E le tempeste e i venti fai restare,
L'erbe fiorite, e fai tranquillo il mare
Et a mortali il cor lieto e iocondo:

Se Jove su nel cielo, e giù nel fondo
Fecisti il crudo di te inamorare,
Se non se vide ancora contrastare
A le tue forze primo né secondo:

Qual fia che or te resista, avendo apreso
Foco insueto e disusato dardo
Che dolcemente l'anima disface?

Con questo m'hai, Signor, già tanto inceso
Per un suave e mansueto guardo,
Che in altra sorte vita non mi piace.


X.

Pura mia neve ch'êi dal ciel discesa,
Candida perla dal lito vermiglio,
Bianco ligustro, bianchissimo ziglio,
Pura biancheza che hai mia vita presa;

O celeste biancheza, non intesa
Da li ochij umani e da lo uman consiglio,
Se a le cose terrene te assumiglio,
Quando fia tua vagheza mai compresa?

Ché nulla piuma del piú bianco olore,
Né avorio, né alabastro può aguagliare
Il tuo splendente e lucido colore.

Natura tal beltà non può creare;
Ma quel tuo gentil lustro vien da Amore,
Che sol, che tanto puote, te 'l pò dare.


XI.

Rosa gentil, che sopra a' verdi dumi
Dài tanto onor al tuo fiorito chiostro,
Suffusa da natura di tal ostro,
Che nel tuo lampegiar il mondo alumi;

Tutti li altri color son ombre e fumi
Che mostrerà la terra on ha già mostro;
Tu sola sei splendor al secol nostro,
Che altrui ne la vista ardi, e me consumi.

Rosa gentil, che sotto il giorno extinto
Fai l'aria piú chiarita e luminosa,
E di vermiglia luce il ciel depinto,

Quanto tua nobilitade è ancor nascosa!
Ché il Sol, che da tua vista in tutto è vinto,
A pena te cognosce, o gentil rosa.


XII.

A la rete d'Amor, che è texta d'oro
E da vagheza ordita con tanta arte
Che Ercule il forte vi fu preso e Marte,
Son anche io preso, e dolcemente moro.

Cosí, morendo il mio signor adoro
Che dal lacio zentil non me diparte,
Né morir voglio in piú felice parte
Ca religato in questo bel lavoro.

Non fia mai sciolto da le treze bionde,
Crespe, lunghe, legiadre e peregrine,
Che m'han legato in sí suave loco.

E, se ben sua adorneza me confonde
E vame consumando a poco a poco,
Trovar non posso piú beato fine.


XIII.

Ride nel mio pensier la bella luce
Che intorno a li ochij di costei sintilla.
E lévame legier come favilla,
E nel salir del ciel se me fa duce.

Là veramente Amor me la riluce,
E con sua man nel cor me la sigilla;
Ma l'alma de dolceza se distilla
Tanto che in forsi la mia vita aduce.

Cosí, rapto nel ciel, fuor di me stesso
Comprendo del zoir di paradiso
Quanto mortal aspetto mai ne vide.

E, se io tornasse a quel piacer piú spesso,
Sarebbe el spirto mo da me diviso,
Sí il soverchio diletto l'omo occide.


XIV.
 
[ CAPITALIS ]

Arte de Amore e forze de Natura
Non fùr comprese e viste in mortal velo
Tutte già mai, da poi che terra e cielo
Ornati fòr di luce e di verdura:
Non da la prima età simplice e pura,
In cui non se sentío caldo né gielo,
A questa nostra, che de l'altrui pelo
Coperto ha il dosso e fatta è iniqua e dura,
Accolte non fôr mai piú tutte quante
Prima né poi, se non in questa mia
Rara nel mondo, anci unica fenice.
Ampla beltade e summa ligíadria,
Regal aspetto e piacevol sembiante,
Agiunti ha insieme questa alma felice.


XV.
 
[ CANTUS COMPERATIVUS ]

Chi troverà parole e voce equale
Che giugnan nel parlare al pensier mio?
Chi darà piume al mio intelletto ed ale
Sí che volando segua el gran desío?
Se lui per sé non sale,
Né giugne mia favella
Al loco ove io la invío,
Chi canterà già mai de la mia stella?
Lei sopra l'altre cose belle è bella,
Né col pensier se ariva a sua belleza,
Perché a lo inzegno umano il ciel la cella;
Né vuol che se salisca a la sua alteza,
Se forsi Amor non degna darci aita,
A ciò che la vagheza
Sia del suo regno quí fra noi sentita.

Pórgime aita, Amor, se non comprende
Il debol mio pensier la nobiltade,
Che a questo tempo tanta grazia rende,
Che glorïosa ne è la nostra etade.
Sí come piú resplende,
Allor che il giorno è spento,
Intra le stelle rade
La luna di color di puro argento,
Quando ha di fiame il bianco viso tento
E le sue corne ha piú di lume piene,
Solo a sua vista è il nostro guardo intento,
Ché da lei sola a nui la luce viene:
Cosí splende qua giù questa lumiera,
E lei sola contiene
Valor, beltade e gentileza intiera.

Come in la notte liquida e serena
Vien la stella d'Amore avanti al giorno,
De ragi d'oro e di splendor sí piena
Che l'orizonte è di sua luce adorno,
Et ella a tergo mena
L'altre stelle minore
Che a lei d'intorno intorno
Cedon parte del cielo e fangli onore;
Indi, rorando splendido liquore
Da l'umida sua chioma, onde se bagna
La verde erbetta e il colorito fiore,
Fa rogiadosa tutta la campagna:
Cosí costei de l'altre el pregio acquista,
Perché Amor la accompagna,
E far sparir ogni altra bella vista.

Chi mai vide al matin nascer l'aurora
Di rose coronata e de jacinto,
Che fuor del mar el dì non escie ancora,
E del suo lampegiar è il ciel depinto;
E lei piú se incolora
De una luce vermiglia,
Da la qual fòra vinto
Qual ostro piú tra noi se gli rasomiglia;
E il rozo pastorel se maraviglia
Del vago rossegiar de lo orïente,
Che a poco a poco su nel ciel se apiglia,
E, con piú mira, piú se fa lucente:
Vedrà cosí ne lo angelico viso,
Se alcun fia, che possente
Se trovi a rigurdarla in vista fiso.

Qual fuor de l'occéan, di raggi acceso,
Risurge il sole al giorno matutino,
E sí come fra l'unde e il ciel suspeso
Va tremolando sopra il suol marino;
E, poi che il freno ha preso
De' soi corsier focosi,
Con le rote d'or fino
Ad erto adriza e corsi luminosi;
Vista non è che mirar fermo lo osi,
Ché di vermiglio e d'oro ha un color misto
Che abaglia gli ochij nostri tenebrosi,
E fa l'uman veder piú corto e trísto:
Tal è a mirar questo mirabil volto,
Che, da li ochij mei visto,
Ogni altro remirar a lor ha tolto.

Vago pensier, che con Amor tanto alto
Volando vai, e del bel viso canti
Che ti fa nel pensar il cor di smalto,
Membrando di sua forma e de i sembianti:
Rimasti da la impresa sí soprana,
Però che tanto avanti
Non va la possa de natura umana.


XVI.

Già tra le folte rame aparir veggio
Ambe le torre ove il mio cor aspira;
Già l'ochio corporale anche lui mira
La terra, che ha l'effecto e 'l nome Reggio.

Alma citade, ove Amor tien suo seggio,
E te sopra volando sempra agira,
Qual nascosta cagion tanto me tira,
Che altro ch'esser in te giamai non chieggio?

Deh, che dico io? ché la cagion è aperta
A le fiere, a li augelli, a i fiumi, a i sassi;
E ne l'abisso e in terra e in mare e in cielo.

Ormai del mio furor per tutto sciassi;
Ché a poco a poco è consumato il gielo
Che un tempo ebbe mia fiama in sè coperta.


XVII.

Sono io mo in terra? on sono in ciel levato?
Sono io me stesso? on dal corpo diviso?
Son dove io veni? on sono in paradiso,
Che tanto son da quel che era mutato?

Oh felice ciascun, ciascun beato
A cui lice amirar questo bel viso,
Che avanza ogni diletto e zoglia e riso
Che possa al core umano esser donato!

Mirate, donne, se mai fu beltate
Equal a questa; e se son tal costumi
Or ne la nostra, on fûr ne l'altra etate!

Dolci, amorosi, mansueti lumi,
Come sconvene a quel che for monstrate,
Che per mirarvi un cor se arda e consumi.


XVIII.
 
[ AD GUIDONEM SCAIOLAM ]

De avorio e d'oro e de corali è ordita
La navicella che mia vita porta;
Vento suave e fresco me conforta,
E il mar tranquillo a navicar me invita.

Vago desir co' i remi a gir me aita;
Governa il temo Amor, che è la mia scorta;
Speranza tien in man la fune intorta
Per porre il ferro adunco a la ferrita.

Cosí, cantando me ne vo legiero,
E non temo de' colpi de fortuna
Come tu che li fugi, e non sciai dove.

Crede a me, Guido mio, ch'io dico il vero:
Cángiasse mortal sorte or bianca or bruna,
Ma meglio è morte qua, che vita altrove.


XIX.
 
[ AD AMOREM INTEROGATIO ]

-- Che augello è quello, Amor, che batte l'ale
Tieco nel cielo, ed ha la piuma d'oro,
Mirabil sí, che in croce mi lo adoro,
Ché al senso mio non par cosa mortale?

Hanne Natura al mondo un altro tale?
Formòlo in terra, on sopra al summo coro?
Fece tra noi piú mai altro lavoro
Che a questo di beltade fusse equale? --

-- Là dove il giorno spunta e ragi in prima
Nascie questa fenize, al mondo sola,
Che de sua morte la vita repiglia.

Piú mai non la vedette il nostro clima;
Però, se toi pensieri al tutto invola
Vista sí rara, non è maraviglia. --


XX.
 
[ CHORUS SINPLEX ]

L'alta beltà, dove Amor m'ha legato
Con la catena d'oro,
Ne la mia servitù mi fa beato.

Né piú lieto di noglia escie e di stento,
Sciolto da' laci, el misero captivo,
Quanto io, di poter privo
E posto in forza altrui, lieto me sento.
Quel vago cerchio d'or che me tien vivo,
Ed hami l'alma e il core intorno avento,
Me fa tanto contento,
Che de alegreza su nel cielo arivo.
E cosí, quando io penso e quando io scrivo
Del mio caro tesoro,
Mi par sopra le stelle esser levato.


XXI.
 
[ COMPERATIVUS ]

Né piú dolce a' nostri ochij il ciel sfavilla
De lumi adorno che la notte inchina,
Né il vago tremolar de la marina
Al sol nascente lucida e tranquilla;

Né quella stella che de su ne stilla
Fresca rogiada a l'ora matutina,
Né in giazio terso, né in candida brina
Ragio di Sol che sparso resintilla;

Né tanto al veder nostro a sé retira
Qual cosa piú gentile et amorosa
Su nel ciel splende, on qua giù in terra spira:

Quanto la dolce vista e grazïosa
Da quei begli ochij che Amor volve e gira;
E chi no 'l crede, de mirar non li osa.


XXII.
 
[ CRUCIATUS ]

L'ora del giorno che ad amar ce invita,
Dentro dal petto el cor mi raserena,
Vegendo uscir l'aurora colorita,
E a la dolce ombra cantar Filomena.

La stella matutina è tanto piena,
Che ogn'altra intorno a lei se è dispartita,
Et essa appo le spalle il Sol si mena,
Di sua stessa belleza insuperbita.

Ciò che odo e vedo suave et ornato
A lo amoroso viso rasumiglio,
E convenirse al tutto l'ho trovato.

Piú volte già nel rogiadoso prato
Ora a la rosa l'hagio ed ora al ziglio,
Ora ad entrambi, insieme acomperato.


XXIII.

Io vado tratto da sí ardente voglia,
Che il Sol tanto non arde ora nel cielo,
Ben che la neve a l'alpe, a' rivi il gielo,
L'umor a l'erbe, a' fonti l'unda toglia.

Quando io penso al piacer ch'el cor me invoglia
Nel qual dal caldo Sol me copro e velo,
Io non ho sangue in core o in dosso pelo
Che non mi tremi da amorosa zoglia.

Spreza lo ardor del sole il foco mio,
Qual or piú caldo sopra a' Garamanti
On sopra a gli Etyóppi o gli Indi preme.

Chi ha di sofrenza on di virtù desío
Il viver forte segua de li amanti,
Ché amor né caldo né fatica teme.


XXIV.

Qual benigno pianetto o stella pia
In questo gentil loco m'ha drizato?
Qual felice destin, qual dextro fato
Tanto abblandisse a la ventura mia?

Canti suavi e dolce melodia
Intorno a me risonan d'ogni lato;
Null'altro è di me in terra piú beato,
Né scio se forsi in cielo alcun ne sia.

Quello angelico viso, anci quel sole,
Che tole al core umano el tristo gielo
E del mio pecto fuor la notte serra,

E lo accento gentil de le parole
Che sopra noi risona insino al celo,
Me fan de li altri piú felice in terra.


XXV.
 
[ CHORUS UNISONUS ]

Deh, non chinar quel gentil guardo a terra,
Lume del mondo e spechio de li Dei;
Ché fuor di questa corte Amor si serra,
E sieco se ne porta i pensier mei.

Perché non posso io star, dove io vorei,
Eterno in questo gioco,
Dove è il mio dolce foco
Da quel tanto di caldo già prendei?
Ma, se ancor ben volesse io, non potrei
Partir quindi il mio core assai o poco,
Né altrove troveria pace né loco,
E, sanza questa vista, io morerei.
Deh! vedi se in costei
Pietade e gientileza ben s'afferra
Come alcia li ochij bei
Per donar pace a la mia lunga guerra.


XXVI.
 
[ IN NATALI DOMINAE ]

Ecco quella che il giorno ce riduce
Che di color rosato il cielo abella;
Ecco davanti a lei la chiara stella
Che il suo bel nome prese da la luce.

Principio sí giolivo ben conduce
A la annual giornata, che fu quella
Che tolse giù dal ciel questa facella
Di cui la gente umana arde e riluce.

Questo è quel giorno in cui Natura piglia
Tanta arroganza del suo bel lavoro,
Che de l'opra sua stessa ha maraviglia.

Piú de l'usato sparge e ragi d'oro
Il Sol piú bello; e l'alba piú vermiglia:
Oggi nacque colei che in terra adoro.


XXVII.
 
[ RODUNDELUS INTEGER AD IMITACIONEM RANIBALDI FRANCI ]

Se alcun de amor sentito
Ha l'ultimo valor, sí come io sento,
Pensi quanto è contento
Uno amoroso cor al ciel salito.

Da terra son levato al ciel son gito,
E gli ochij ho nel Sol fisi al gran splendore,
E il mio veder magiore
Fatto è piú assai di quel che esser solía.
Qual inzegno potría
Mostrar al mio voler e penser mei?
Perché io stesso vorei
Cantar mia zoglia, e non esser odito.
   Se alcun de amor sentito, ec..

Io son del mio diletto sí invagito,
Che a ragionarni altrui prendo terrore;
Né in alcun tempo amore
Fu mai, né sarà, senza zelosia.
Ben fóra gran folía
A scoprir la belleza di costei,
Ché ben ne morerei
Se io fusse per altrui da lei partito.
   Se alcun de amor sentito, ec..

Beato viso, che al viso fiorito
Fusti tanto vicin, che il dolce odore
Ancor me sta nel core,
E starà sempre insin che in vita sia!
Tu, l'alta ligiadria
Vedesti sí di presso e gli ochij bei;
Tu sol beato sei,
Se il gentil spechio tuo non t'è rapito
   Se alcun de amor sentito, ec..

Felice guardo mio, che tanto ardito
Fusti ne lo amirar quel vivo ardore,
Che te potrà mai tore
Lo amoroso pensier che al ciel te invia?
Ben scio certo che pria
E l'alma e il core e il senso perderei;
Ben scio che io sosterei
Anci di cielo e terra esser bandito.
   Se alcun de amor sentito, ec..

Ligato sia con meco e sempre unito;
Se meco insieme l'anima non more,
Non se trarà mai fore
Questo unico mio ben de l'alma mia.
Dolce mia segnoria,
A cui ne mei primi anni me rendei,
Senza te che sarei?
Inculto, rozo, misero e stordito.
   Se alcun de amor sentito, ec..

Per te, candida rosa, son guarnito
Di spene e zoglia, e vôto di dolore;
Per te fugi' lo errore
Che in falsa sospizione el cor me apria.
Tu sola sei la via
Che me conduce al regno de gli Dei;
Tu sola e pensier rei
Tutti hai rivolti, e me di novo ordito.
   Se alcun de amor sentito, ec..

Per te sum, rosa mia, del vulgo uscito,
E forsi fia ancor letto il mio furore;
E forsi alcun calore
De la mia fiamma ancor inceso fia:
E, se alcuna armonia
Oguagliar se potesse ai pensier mei,
Forsi che ancor farei
Veder un cor di marmo intenerito.
   Se alcun de amor sentito, ec..

Cantiamo adunque il viso colorito,
Cantiamo in dolce notte il zentil fiore
Che dà tanto de onore
A nostra etade che l'antiqua oblia.
Ma l'alta fantasia
Ne la qual già pensando me perdei,
Nel rimembrar di lei
Da me m'ha tolto e sopra al ciel m'ha sito.

Se alcun de amor sentito
Ha l'ultimo valor, sí come io sento,
Pensi quanto è contento
Uno amoroso cor al ciel salito.



XXVIII.

Chi tole il canto e penne al vago augello,
Le foglie e il color vivo tole al fiore,
A l'erbe la verdura e il primo odore,
E il fiore e l'erbe tole al praticello,

E le ramose corne al cervo isnello,
Al cielo e stelle e sole e ogni splendore:
Quel, puote a un cor gentil togliere amore,
E la speranza al dolcie amor novello.

Ché, sanza amore, è un core sanza spene,
Un arbor sanza rame e sanza foglie,
Fiume sanza unde, e fonte sanza vene.

Amore ogni tristeza a l'alma toglie,
E quanto la Natura ha in sé di bene
Nel core inamorato se racoglie.


XXIX.
 
[ CUM IN SUBURBANO VACARET LUDIS PUELLARIBUS ]

Gentil città, come ei fatta soletta!
Come êi del tuo splendor fatta hozi priva!
E un picol fiumicel su la sua riva
Di tanto ben felice si diletta.

Io me ne vado dove Amor me aspetta,
Che è gito in compagnia de la mia diva;
Amor, che ogni altra cosa ha vilé e schiva,
E di lasciar costei sempre sospetta.

Sanza di lei né tu né altro me piace;
Né sanza lei tra l'Isole Beate,
Né in ciel, ch'io creda, sentiria mai pace.

Rimanti adunque tu, gentil citate,
Poi che una tua villeta è tanto audace
Che hozi te spoglia di tua nobiltate.


XXX.

Qual ne i prati de Idalo on de Cytero,
Se Amor de festegiar piú voglia avea,
Le due sorelle agiunte a Pasitea,
Cantando, di sé cerchio intorno fêro:

Tal se fece oggi, e piú legiadro e altero,
Essendo in compagnia de la mia dea
E de l'altre doe belle, onde tenea
La cima di sua forza e il summo impero.

Gioiosamente in mezo a lor si stava
Voltando le sue ale in piú colori,
E sua belleza tutta fuor mostrava.

La terra lieta germinava fiori,
E il loco aventuroso sospirava
Di dolce foco e d'amorosi odori.


XXXI.

Ben se ha trovato il piú legiadro seggio
Amor che fabricasse mai Natura,
Et io presumo a scriver sua figura
Perché d'ognor nel cor me la vagheggio.

La sua materia è de alabastro egreggio,
E d'or coperta è la suprema altura,
Sotto a cui splende luce viva e pura
Tal ch'io non la scio dir come io la veggio;

Ché di cristallo è tutta la cornice,
De ebbano ha sopra uno arco rivoltato;
Chi dentro può mirar ben è felice!

Quí sede Amor de raggi incoronato;
E in voce altera a' riguardanti dice: --
Venga a veder chi vole essere beato. --


XXXII.

Perché non corresponde alcuno accento
De la mia voce a l'aria del bel viso?
Ch'io faría in terra un altro paradiso,
E il mondo, ne l'odir de lei, contento.

Farebbe ad ascoltarmi a forza intento
Ogni animal da umanità diviso;
E, se mostrar potessi il dolce riso,
Faria movere e saxi e star il vento.

Ben ho piú volte nel pensier stampite
Parole elette e note sí suave,
Che assai presso giugneano a sua belleza;

Ma, poi che l'ho legiadramente ordite,
Par che a ritrarle el mio parlar se inchiave,
E la voce mi manche per dolceza.


XXXIII.
 
[ CANTUS RITHMO INTERCISO CONTINUATUS ]

L'alta vagheza,--che entro al cor me impose
Con l'amorose--ponte il mio volere,
Il spirto me sotragie al suo piacere,
Ché a lei volando l'alma se desvia.
Se stessa oblia,--et io non ho potere
Di ratenere--il fren come io solia;
Ché piú non stano da la parte mia
Arte né inzegno, forza né sapere.
Hagio quel foco in me ch'io soglio avere,
E quel vedere--usato, e quella voglia;
Ma il poter piú tener mie fiamme ascose
Mi è tolto in tutto, e il ricoprir mia noglia,
Che un tempo occultamente il cor mi ròse,
Mentre potei celar, come io dispose.

Già son le rose--a la sua fin extrema,
E pur non scema--di mia fiama el fiore,
Anzi piú caldo ha preso e piú vigore,
Come piú largo giro or prende il sole.
Ma non mi dole--or tanto questo ardore
Che me arde il core--assai piú che non sòle;
Sia quel che il Ciel dispone e che Amor vòle,
Pur che altri non cognosca il mio furore.
Ma che posso io? ché 'l tempo mostra l'ore,
E il viso amore; e però cerco in vano
Mostrar di fora ardir, se 'l cor mi trema.
Se pietà non mi porge il viso umano,
E proveda che Amor sí non mi prema,
Ancor convien ch'io cridi, non ch'io gema.

Come vuol, frema--il mare o il ciel intoni,
Ché a tutti e soni--a me dansar convene;
Né in zoglia altrui voria cangiar mie pene,
Se amirar quel potesse ond'io tanto ardo.
L'ochio fu tardo,--e già non se sostene,
Ché piú non vene il fugitivo pardo;
Tenir non posso el cor sanza quel guardo,
Ché mal se può tenir chi non ha spene.
Qual capestro, qual freno on qual catene,
Qual forza tene--el destrier ch'è già mosso
Nel corso furïoso, ed ha chi el sproni?
Sapiati, alma gentil, che piú non posso,
Quando convien che al fine io me abandoni,
On che io me mori, on che al guardar perdoni.

Queste cagioni--fûrno al mio fallire,
Se altri vol dire un fallo il guardar mio;
Ma, se piú mai signor benigno e pio
Odì suo servo, odeti mia ragione.
Ne la stagione--che il mio cor sentío
L'alto desio--e dolce passïone,
Sí lieto el viso vostro se mostrone,
Che in lui posi speranza come in Dio.
Fatto se è poi (non scio perché) restío,
E tanto rio--e del suo guardo avaro,
Che il cor degiuno piú non può soffrire.

Usato non è lui pascer d'amaro,
Perciò gli è forza al suo fonte venire,
On a spegner la sete, on a morire.
Se pur languire--io debbo in questa etate,
Vostra beltate--non sarà mai quella,
Ch'io scio che non potría cosa sí bella
Esser cagion di morte a chi l'adora.
Or ride or plora--l'alma tapinella,
D'una facella--avampa e discolora:
A voi sta che la viva e che la mora;
Voi la regina seti, e lei l'ancella.
Perché s'asconde adunque la mia stella?
Perché se cella--il mio lume sereno?
Se cor gentil asdegna crudeltate,
Come assentite voi ch'io venga meno?
Pur vostra forma è di tal nobiltate,
Che esser non può ribella di pietate.

Ma, sia quel ch'esser vuole, io, quel che sono,
Tutto abandono--in vostre braza al fine,
Né mia fortuna ha scampo in altro porto.
Abi la terra l'osse mie meschine;
E il cor, che del suo spirto è privo a torto,
Vostro fu vivo e vostro sarà morto.


XXXIV.
 
[ CAPITALIS ]

Anzelica vagheza in cui natura
Ne mostra ciò che bel puote operare,
Tal che a sí chiara luce acomperare
Ogni stella del ciel parebbe oscura.
Non si può aconciamente anima dura
In grazïosa vista colorare;
A voi una umiltà ne li ochij appare,
Che de pietate ogn'alma rassicura.
A che mostrare adunqua che le pene
Per voi portate, sian portate in vano,
Ridendo el foco ch'el mio cor disface?
Alma ligiadra! tropo disconvene
Risposta dura a un viso tanto umano:
Aiuto adunque, on morte, qual vi piace.


XXXV.

Se cosa bella sempre fu gentile,
Né mai mentì pietade a gentileza,
Ancor sarà che giù ponga l'aspreza
Quel magnanimo core e signorile.

Sdegno regal se placa al servo umíle,
E in picol tempo se dilegua e speza;
L'ira crudiel, e l'odio e la dureza
Non han ricetto fuor che in alma vile.

Ma se pur forsi il Ciel novo destino
Fatto ha per me, né vuol ch'io me conforte
De aver mercé dal mio viso divino,

Tacito porterò la dura sorte;
E sol, piangendo, me morò meschino,
Per non incolpar lei de la mia morte.


XXXVI.

Datime a piena mano e rose e zigli,
Spargete intorno a me viole e fiori;
Ciascun che meco pianse e mei dolori,
De mia leticia meco il frutto pigli.

Datime e fiori e candidi e vermigli:
Confáno a questo giorno e bei colori;
Spargeti intorno d'amorosi odori,
Ché il loco a la mia voglia se assumigli.

Perdón m'ha dato et hami dato pace
La dolce mia nemica, e vuol ch'io campi
Lei, che sol di pietà se pregia e vanta.

Non vi maravigliati per ch'io avampi,
Ché maraviglia è piú che non se sface
Il cor in tutto d'alegreza tanta.


XXXVII.
 
[ CHORUS TRIPLEX RITHMO INTERCISO ]

Doppo la pugna dispietata e fera,
Amor m'ha dato pace,
A cui despiace--che un suo servo pera.

Come piú dolce ai navicanti pare,
Poi che fortuna gli ha sbatuti intorno,
Veder le stelle, e piú tranquillo il mare,
E la terra vicina, e il novo giorno:
Cotale è dolce a me, che al porto torno
Da l'unda aspra e falace,
La chiara face--che mi dà lumera.

E qual al peregrin de nymbi carco,
Doppo notturna piogia e fredo vento,
Se mostra al sole averso il celeste arco,
Che sol de la speranza il fa contento:
Tal quel Sol ch'io credea che fusse spento,
Or piú che mai me piace,
E piú vivace--è assai che già non era.


XXXVIII.
 
[ CUM MISISSET LOCULUM AURO TEXTUM ]

Grazïoso mio dono e caro pegno,
Che sei de quella man gentil ordito,
Qual sola può sanar quel che ha ferito,
E a la errante mia vita dar sostegno;

Dono amoroso e sopra l'altri degno,
Distinto in tante parte e colorito,
Perché non è con teco il spirto unito
Che già te fabricò con tanto inzegno?

Perché non è la man legiadra teco?
Perché teco non son or quei desiri
Che sí te han fatto di beltate adorno?

Sempre ne la mia vita sarai meco,
Avrai sempre da me mille sospiri,
Mille basi la notte e mille il zorno.


XXXIX.

Già vidi uscir de l'onde una matina
Il sol, di ragi d'or tutto jubato,
E di tal luce in facia colorato,
Che ne incendeva tutta la marina.

E vidi a la rogiada matutina
La rosa aprir d'un color sí infiamato,
Che ogni luntan aspetto avría stimato
Che un foco ardesse ne la verde spina.

E vidi a la stagion prima e novella
Uscira la molle erbetta come sòle,
Aprir le foglie ne la prima etate.

E vidi una legiadra donna e bella
Su l'erba coglier rose al primo sole
E vincer queste cose di beltade.


XL.
 
[ AD LUCIFERUM ]

Réndece il giorno, e l'alba rinovella,
Ch'io possa riveder la luce mia,
Stella d'Amor, che sei benigna e pia;
Réndece il giorno che la notte cella.

Tu sei sola nel cielo ultima stella,
Per te si sta la notte, e non va via:
Se non fusse per una, io pur diría
Che dispetosa al mondo è chiunque è bella.

Réndece il giorno; ché il desir me strugge,
Perché la mia speranza al giorno aspetto,
E lo aspettar nel cor dentro me adugge.

Stella crudel, c'hai del mio mal diletto,
Che ogn'altra fuor del ciel la luce fugge,
E tu firma ti stai per mio dispetto!


XLI.

Questa matina nel scoprir del giorno
Il ciel s'aperse, e giù dal terzo coro
Discese un spiritel con l'ale d'oro,
Di fiame vive e di splendor adorno.

-- Non vi meravigliati se io ritorno,
Dicea cantando, al mio caro tesoro;
Ché in sé non have il piú zentil lavoro
La spera che piú larga gira intorno.

Quanto abblandisse il celo a voi mortali,
Che v'ha donato questa cosa bella,
Ristoro immenso a tutti e vostri mali! --

Cosí cantando quel spirto favella,
Batendo motti a le sue voce equali,
E tornasi zoglioso a la sua stella.


XLII.

Chi non ha visto ancora il gentil viso,
Che solo in terra se paregia al sole,
E l'acorte sembiance al mondo sole,
E l'atto dal mortal tanto diviso;

Chi non vide fiorir quel vago riso
Che germina de rose e de viole;
Chi non audí le angeliche parole
Che sonan d'armonia di paradiso;

Chi piú non vide sfavilar quel guardo
Che, come stral di foco, il lato manco
Sovente incende, e mette fiamme al core;

E chi non vide il volger dolce e tardo
Del suave splendor tra il nero e il bianco,
Non scia né sente quel che vaglia Amore.


XLIII.
 
[ SOMNIUM CANTU UNISONO TRIVOCO ]

Ancor dentro dal cor vago mi sona
Il dolce ritentir di quella lyra;
Ancor a sé me tira
La armonia disusata; e il novo canto
Tanto suave ancor nel cor me spira,
Che me fa audace de redirne alquanto,
A ben che del mio pianto
La dolce melodia nel fin ragiona.
Quando l'Aurora il suo vechio abandona,
E de le stelle a sé richiama il coro,
Poi che la porta vuole aprire al giorno,
Veder me parve un giovenetto adorno,
Che aveva facia di rose e capei d'oro,
D'oro e di rose avea la veste intorno.
Cinta la chioma avea di verde aloro,
Che ancor dentro amoroso il cor gli morde,
Ché l'amor perso eternamente dole.
Indi, movendo il plectro su le corde,
Sí come far si sòle,
La voce sciolse poi con tal parole:

-- Quando Natura imaginando adopra,
Quanto di bello in vista può creare,
Ha voluto mostrare
In questa ultima etate al mondo ingrato;
Né pòssi a tal belleza acomperare
Il mio splendor, che il cielo ha illuminato;
E ciò che fu creato
Primieramente, cede a l'ultima opra.
Tanto è questa beltate a l'altre sopra,
Quanto a noi Marte, e quanto a Marte Jove,
Quanto a lui sopra sta l'ultima spera.
Formata fu questa legiadra fera,
Che paro in terra di beltà non trove,
Perché il regno d'Amor qua giù non pera.
Amor la sua possanza da lei move,
Come tu senti, e può vedere il mondo:
E, piú de gli altri, el cor tuo questo intende.
Quando Amor vien dal suo regno jocondo,
Da questa l'arme prende,
Perché sua forza sol da lei discende.

Beato il cielo, e felice quel clima
Sotto al quale nacque, e quella regïone!
Beata la stagione
A cui tanto di ben pervenne in sorte!
Beato te, che a la real pregione
Per te stesso sei chiuso entro a le porte!
Ché non pregion, ma corte,
Questa se de' nomar, se ben se stima.
Beati li ochij toi, che vèder' prima
Quel nero aguto e quel bianco suave
Che a l'amorosa zoglia apre la via!
Beato il cor che ogn'altra cosa oblía
Né altro diletto né pensier non have
Fuor che di sua legiadra campagnía!
Quanto beata è l'amorosa chiave
Che apre e dissera l'anima zentile
Nel dolce contemplar de li atti bei!
Fatto è beato e nobile il tuo stile
Nel cantar di colei
Che in terra è nynfa, e diva è fra gli Dei.

Quando costei dal cielo a vui discese,
Una piogia qua giù cadea de zigli,
E rose e fior vermigli
Avean di bel color la terra piena.
Non voglio che perciò sospetto pigli:
Ma, al vero, in cielo io mi rateni apena,
E in vista piú serena
Mostrai la zoglia mia di fuor palese.
Jove, che meco a mano allor se prese,
Mirava in terra con benigno aspetto,
E fèsse a nostra vista il mondo lieto.
A noi stava summesso ogni pianeto,
Fioría la terra e stava con diletto,
Tranquillo il mare e il vento era quieto.
Cosí a noi venne questo ben perfetto,
Favorito dal Cielo e da le stelle
Piú che mai fusse ancor cosa formata.
Questa dal petto l'alma a te divelle:
Ma, se al ver ben se guata,
Mal per te fo cotal beltà creata.

Mal fo per te creata: il ver ragiono;
Sciai ch'io so' Febo e non soglio mentire:
Per farti al fin languire
Venuta è in terra questa cosa bella.
Misero te, che tanto hai da soffrire
Da questa fera fugitiva e snella!
Miser, quanta procella
Porrà ancor la tua barca in abandono!
E, se io de lo advenir presago sono,
Nulla ti giova lo amonír ch'io facio,
Ché distor non te posso a chi te guida.
Tristo chi d'alma feminil se fida,
A ciò che doppo il danno e doppo il straccio
Sovente del suo male altri se rida!
Nel foco che t'arde ora, vedo un giaccio
Che te farà tremar l'osse e la polpa,
Mancar il corpo e il spirto venir meno.
Non te doler de altrui, ché l'è tua colpa;
E tu lo vidi a pieno,
Che dovevi al desir por prima il freno. --

Cosí cantava; e querelando al fine
La cytera suave sospirava
Voce piú cheta e note peregrine.
Qual vanitade noi mortali agrava!
Creder al sogno ne la notte oscura,
Et al cieco veder dar chiara fede!
Ma ben che io non sia sciolto da paura,
Il mio cor già non crede
Aver del suo servir cotal merzede.


XLIV.

Ocio amoroso e cura giovenile,
Gesti legiadri e lieta compagnia,
Solazo fuor di noglia e di folía,
Alma rimota da ogni pensier vile,

Donesco festegiar, atto virile,
Parlar accorto e giunto a cortesia,
Son quelle cose, per sentenzia mia,
Che il viver fan piú lieto e piú zentile.

Chi cosí visse al mondo, visse assai,
Se ben nel fior de gli anni il suo fin colse;
Ché piú che assai quel campa che ben vive.

Passata zoglia non se lassa mai;
Ma chi poté ben vivere, e non volse,
Par che anzi tempo la sua vita arive.


XLV.

Tornato è il tempo rigido e guazoso,
Che la noCte su crese e il giorno manca,
Il ciel se anera e la terra se imbianca,
L'unda è concreta e il vento è ruinoso.

Et io, come di prima, son focoso,
Né per fredura il mio voler si stanca;
La fiama che egli ha intorno sí lo affranca,
Che nulla teme il fredo aspro e noglioso.

Io la mia estate eterna haggio nel petto,
E non la muta il turbido Orïone,
Né Hyade né Plyade né altra stella.

Scaldami il cor Amor con tal diletto,
Che verdegiar lo fa d'ogni stagione
Che l'astro suo gentil non si gli cella.


XLVI.
 
[ FLOS FRIGORE FRACTUS ]

Che non fa il tempo infin? Questo è quel fiore
Che fu da quella man gentile accolto,
E sí legiadramente ad oro involto,
Che eterno esser dovea di tanto onore.

Or secco, sanza foglie e sanza odore,
Discolorito, misero e disciolto,
Ciò che gli dié natura il tempo ha tolto,
Il tempo che volando afretta l'ore.

Ben se assumíglia a un fior la nostra etate,
Che stato cangia da matina a sera,
E sempre va scemando sua beltate.

A questo guarda, disdegnosa e altera:
Abbi, se non di me, di te pietate,
A ciò che indarno tua beltà non pera.


XLVII.

Con qual piogia nojosa e con qual vento,
Fortuna a l'andar mio si fa molesta!
Gelata neve intorno me tempesta,
Aciò che io giunga al mio desir piú lento.

Ed io del ciel turbato non pavento,
Ché per mal tempo il buon voler non resta,
Et ho dentro dal cor fiamma sí desta,
Che del guazoso fredo nulla sento.

Stretto ne vado in compagnia de Amore,
Che me mostra la strata obliqua e persa
E fatto è guida al mio dritto camino.

Or mi par bianca rosa e bianco fiore,
La folta neve che dal ciel riversa,
Pensando al vivo Sol che io me avicino.


XLVIII.

Io non scio se io son più quel ch'io solea,
Ch'el mio vedere non è già quel che sòle;
Veduto ho zigli e rose e le viole
Tra neve e giazi a la stagion piú rea.

Qual erbe mai da Pindo ebbe Medea?
Qual di Gargano la figlia del Sole?
Qual pietre ebbe ciascuna e qual parole
Che dimostrasse quel ch'io mo vedea?

Io vidi in quel bel viso primavera
D'erbetta adorna e d'ogni gentil fiore,
Vermiglia tutta, d'or, candida e nera.

Ne l'ultima partita stava Amore,
E in man tenea di fiame una lumera,
Che li altri ardea ne li ochij, e me nel core.


XLIX.

Quando ebbe il mondo mai tal maraviglia?
Fiamma di rose in bianca neve viva,
Auro che 'l Sol de la sua luce priva,
Un foco che nel spirto sol se impiglia;

Candide perle e purpura vermiglia,
Che fanno una armonia celeste e diva;
Una altereza che è d'orgoglio schiva,
Che ad altro che a sé stessa non sumiglia.

Questo è il monstro ch'io canto sí giolivo,
Dal qual lo inzegno e la alta voce piglio,
Di cui sempre ragiono e penso e scrivo.

Questa è la augella da l'aurato artiglio,
Che tanto me alcia, che nel cielo arivo
A rivederla nel divin conciglio.


L.
 
[ EPTHALOGOS CANTU PER SUMA DEDUCTO ]

Quella amorosa voglia
Che a ragionar me invita
In rime ascose e crude
De lungi a la mia Diva,
Doni soccorso a la mia stanca mente,
Poi che me fa parlare
Come madona fosse a me presente.

Candida mia columba
Qual è toa forma degna?
Qual cosa piú sumiglia
A la toa gran beltate?
Augella de l'Amor, segno di pace,
Come debio nomarti,
Che nulla cosa quanto te me piace?

Arbosel mio fronzuto,
Dal paradiso còlto,
Qual forza di natura
Te ha fatto tanto adorno
Di schieto tronco e de odorate foglie,
E de tanta vagheza,
Che in te racolte son tutte mie voglie?

Gentil mia fera isnella,
Agile in vista, candida e ligiera,
Sendo cotanto bella,
Come esser puote in te mai mente altera
E de pietà ribella?
Però, se in cosa umana, il mio cor spera,
Tu sola in terra êi quella.

Lucida perla còlta ove se coglie
Di prezïose geme ogni richeza,
Dove l'unda vermiglia abunda in zoglie,
E sopra el lito suo le sparge intorno,
Serà già mai ventura
Che a me dimostri sí benigno il volto,
Che da te speri aiuto?

Vago fioreto, io non ho vista audace
Che fissamente ardisca de guardarti;
Per ciò tua forma e il tuo color se tace:
Ché tanta è tua belleza e nobiltate,
E di tal maraviglia,
Ch'esser da noi cantata si disdegna,
E chiede magior tromba.

Canzon, il cor mio lasso or mai se pente
Sua donna ad altro piú rasumigliare,
Ché sua beltate immensa no 'l consente.
Lassa che Amor con sua man la descriva
Tra le tre nynfe nude;
La voce lor diversamente unita
Dimostri tanta zoglia.


LI.

Quello amoroso ben de ch'io ragiono,
Tanto è in sugetto nobile e soprano,
Che dimostrar no 'l pò lo inzegno umano,
Però che al ciel non giunge il nostro sono.

Unde io la impresa piú volte abandono,
Vegendo ben che io me affatico in vano;
Ma pui, cacciato da desir insano,
Nel corso già lassato ancor me sprono.

Cosí ritorno a ragionar d'amore
Con mente ardita e con la voce stanca,
Da ragion fiaco, e punto da speranza.

Di questo pasco il deboleto core,
Or di luce vermiglia et or di bianca;
Ché quel pensiero ogni diletto avanza.


LII.

Qualunque piú de amar fu schiffo in pria,
E dal camin de Amor piú dilungato,
Cognosca l'alegreza del mio stato,
E tornerase a la amorosa via.

Qualunque in terra ha piú quel ch'ei disia
Di forza, senno, e di belleza ornato;
Qualunque sia nel mondo piú beato,
Non se pareggia a la fortuna mia.

Ché il legiadro desire e la vaghezza
Che dentro mi riluce nel pensiero,
Me fan tra l'altre gente singulare.

Tal che io non stimo la indica richeza,
Né del gran re di Scyti il vasto impero,
Che un sol piacer de amor non può aguagliare.


LIII.

La smisurata ed incredibil voglia
Che dentro fu renchiusa nel mio core,
Non potendo capervi, escie de fore,
E mostra altrui, cantando, la mia zoglia.

Cingete il capo a me di verde foglia,
Ché grande è il mio trionfo, e vie magiore
Che quel de Augusto on d'altro imperatore,
Che ornar di verde lauro il crin si soglia.

Felice bracia mie che mo tanto alto
Giugnesti, che a gran pena io il credo ancora,
Qual fia de vostra gloria degna lode?

Ché tanto de lo ardir vostro me exalto,
Che, non piú meco, ma nel ciel dimora
Il cor, che ancor del ben passato gode.


LIV.

Ben se è ricolto in questa lieta danza
Ciò che può far Natura, il Cielo e Amore;
Ben se dimostra a' nostri ochij di fuore
Ciò che dentro dal petto avean speranza.

Ma quella dolce angelica sembianza,
Che sempre fu scolpita nel mio core,
È pur la stella in cielo, in prato il fiore,
Che, non che l'altre, ma sé stessa avanza.

Il suave tacer, il star altero,
Lo accorto ragionar, il dolce guardo,
Il perregrin dansar ligiadro e novo,

M'hanno sí forte acceso nel pensiero,
Che sin ne le medole avampo et ardo,
Ne altrove pace, che in quel viso, trovo.


LV.

Sazio non sono ancora, e già son lasso
De riguardar il bel viso lucente,
Che racender potria l'anime spente
E far l'abysso d'ogni noglia casso.

Qual alma piú villana e spirto basso
De lo amoroso foco ora non sente,
Che fuor vien de quelli ochij tanto ardente,
Che può scaldar d'amor un cor di sasso?

Fiamelle d'oro fuor quel viso piove
Di gentileza e di beltà si vive,
Che puon svegliare ogni sopito core.

Da questa gentil lampa se commove
Quanto parlando mostra, e quanto scrive,
Quanto in sé coglie il mio pensier d'amore.


LVI.
 
[ CORUS DUPLEX UNISONUS ]

Chi crederebbe che sí bella rosa
Avesse intorno sí pungente spine?
Chi crederebbe ascosa
Mai crudeltate in forme sí divine?

Merita tal risposta la mia fede?
Convense a cortesía
Scaciar da sé colui che mercè chiede?
Forsi de lo arder mio tanto non crede?
Ma già la fiamma mia
Fatta è tanto alta, che ciascun la vede.
Obliquo fato e mia fortuna ria,
Da qual cagion procede
Che a me costei sia cruda, a li altri pia?
Ma sia, se vuol, crudele: io non poría
Mai desperar mercede,
Né abandonar quel che 'l mio cor desía.
Perfetto amor ogni dispetto oblía:
Serà ancor tempo forsi ancie il mio fine,
Che a mie pene meschine
Pace conceda l'alma grazïosa.


LVII.

Io sono e sarò sempre quel ch'io fui,
E, se altro esser volesse, io non potrei;
Lo amor, la fede, e tutti e penser mei
E tutta mia speranza ho posto in vui.

Né dar poríame, se io volesse, altrui;
Né loco, né credenza trovarei;
Sánsel gli omini in terra, in cielo e Dei,
Dove raposta è la mia spene, e in cui.

Servo me vi son fatto; e non mi pento,
Né pentirò giamai, se 'l foco e l'unde,
Se con le nube non fa pace il vento;

Se 'l Sol la luce al giorno non asconde;
Se in guerra non congiura ogni elemento;
Se il mar, la terra e il ciel non se confunde.


LVIII.

Come esser può che a nui se obscuri il sole
Per cosí poca nube e poco objetto?
Come puote esser che 'l benigno aspetto
Non se dimostra a noi pur come il sòle?

Se sua sia la cagione, assai me dole;
Se mia, vie piú di doglia ha il gran dispetto;
O voglia ardente, o disioso affetto,
Come conduci altrui dove ei non vole!

Noi pur vediamo il cielo e le sue stelle,
La luna, il sole, e ne' celesti chiostri
Il vago lampegiar de gli altri segni.

Dio fece al mondo le sue cose belle
Per dar piú de diletto a li ochij nostri;
E tu de esser mirata te desdegni?


LIX.

Se 'l mio morir non sazia il crudo petto,
Ribella de pietade, or che piú chiedi,
Poi che condutto son come tu vedi,
Che sol da morte il mio soccorso aspetto?

Ben pòi del mio languir prender diletto;
Ma non sarà giamai quel che tu credi,
Che discaciar me possi da i toi pedi,
Per sdegno, per orgoglio, on per dispetto.

Teco sarà il mio core e morto e vivo,
Né lungo tempo cangiarà desío,
Se in mille forme l'anima mutasse.

Se del tuo amore a torto ben son privo,
Se discaciato a torto, e che posso io?
Ma chi poría mai far che non te amasse?


LX.

Fin quí me è parso fresca rosa il foco,
Fresca rogiada il lacrimar d'amore,
Suave vento è parso al tristo core
Il suspirar, e il lamentar un gioco.

Or piú nel gran martir non trova loco
Il cor dolente e l'anima che more;
L'anima avezza a stare in quello ardore
Che dentro la consuma a poco a poco.

Misero mio pensero, a che pur guardi?
Guardar dovevi allor quando a la rosa
La man porgesti, e paventar le spine.

Ch'or pur, lasso, comprendo, a ben che tardi,
Che da giovenil alma e desiosa
Lo amor non se conosce in sino al fine.

FINIS PRIMI LIBRI.




MATTHÆI MARIÆ BOIARDI
COMITIS SCANDIANI
AMORUM LIBER SECUNDUS


LXI.

Chi fia che ascolti el mio grave lamento,
Miseri versi e doloroso stile
Conversi, dal cantar dolce e gentile,
A ragionar di pena e di tormento?

Cangiato è in tutto il consueto accento
E le rime d'amor alte e sutile;
E son sí fatto disdegnoso e vile,
Che sol nel lamentar mi fo contento.

Disventurato me, ch'io vivo ancora,
Né m'ha distruto la amorosa vampa,
Ma nel rearso petto se rinova!

Deh, chi può ben morir, adesso mora;
Ché chiunque il suo ben perde, e di poi campa,
Campando, mille morte el giorno prova.


LXII.

Alme felice, che di nostra sorte
Libere seti del tormento rio,
Fugeti Amor e per lo exemplo mio,
Chiudeti al suo venir anti le porte.

Men male è ogni dolor, men mal è morte,
Che il cieco labyrinto di quel Dio;
Credeti a me, ché experto ne sonto io,
Che cerco ho le sue strate implexe e torte.

Fugeti, alme felice, il falso amore,
Prendendo exemplo de la mia sagura;
Stregneti il freno al desioso core.

Prendeti exemplo, e prendavi paura:
Ché il caso è piú crudel tanto e magiore,
Quanto saliti e piú seti in altura.


LXIII.

Dove debío le mie querele ordire?
Dove debío finire e mei lamenti?
Da gli passati oltragi on da presenti?
Dal nuovo duol on dal primo languire?

Ché destinato ho al tutto de scoprire
L'aspra mia noglia e i dolorosi stenti;
Forsi pietà ne avran qualche altre genti
Odendo la cagion del mio morire.

Questo, riposo fia de mia fatica;
E fia de l'alma afflitta alcun conforto
Al smesurato duol che 'l cor me inchiava,

Se alcun sarà che sospirando dica: --
Questa donna crudiel diede a gran torto
Amara pena a chi dolcie la amava. --


LXIV.

Poi che intendeti tanto il mio dolore,
Quanto mostrar lo può mia afflitta voce,
Mirati a quel ardor che 'l cor mi coce,
Se mai nel mondo pena fu mazore.

Per dritto amar e per servir di core,
Son preso, flagellato e posto in croce;
E servo un cor sí rigido e feroce,
Che me tormenta il guidardon de amore.

Né il ciel prende pietà del mio martire,
Né pietà prende Amor che 'l cor mi vede,
Né quella che è del mal prima cagione.

Quanto felice a quel saria il morire,
Che pena in doglia, et altri non gli crede
Né porta al suo penar compassïone!


LXV.

E miseri pensieri, ancora involti
Nel foco de la antiqua vanitate,
Membrando il tempo e le cose passate
Et al lieto zoir dove son tolti,

Me son radutti intorno al cor sí folti
Di pianti e di querele disusate,
Che un saxo farian romper di pietate,
Ma ben non trovan chi sua pena ascolti.

Ché il cor, per longa doglia, è fatto un marmo,
Né e pietosi pensier se tene avanti,
Ma desdegnoso intorno a sé gli scacia.

Onde io la vita mia piú non risparmo,
Ma giorno e notte me consumo in pianti
Per far questa crudel del mio mal sacia.


LXVI.
 
[ CORUS SINPLEX ]

Da poi ch'io son lassato
Da quello amor che già me fu jucondo,
Che degio far piú sconsolato al mondo?

Tempo è ben da morir, ancie è passato;
Morir dovea in quel punto
Che da me se divise l'alma mia.
Or quí, contro a mia voglia, pur son gionto,
Misero, abandonato,
Fuor che da vita; e lei lasciar voría.
Ahi, crudel sorte e ria,
Come deposto m'hai da cima al fondo!
Doppo il primo morir manda il secondo.


LXVII.

Se pianti né sospiri Amor non cura,
Né, per chieder mercè, pietà se aquista,
A che piú querelarsi, Anima trista,
E farci vita breve e fama oscura?

Tacita passi nostra gran sagura;
Ché tal beltà per noi mal fôra vista,
Se eterno in questa vita ne contrista,
E ne l'altra lo onor e il Ciel ne fura. ?

-- Deh, come leve n'escon le parole;
Come e fatti a seguir son gravi e lenti!
Come altri ben conforta chi non dole!

De tanto mal non vòi che io me lamenti?
Né che io contrasti a quel che il Ciel non vole,
Ma, tacita, che del mio mal non senti? --


LXVIII.

Da poi che Amor e lei pur vôl che io pera,
Lei che me occide in guiderdon de amore,
Altro rissor non trova il tristo core,
Che il lamentarsi da matino a sera.

Cosí dal bianco giorno a notte nera
Sfogo piangniendo l'alto mio dolore,
Che sempre lamentando vien magiore,
Poi che soccorso da pietà non spera.

Indi de pianto li ochij mei son pieni
Sempre, e di voce sospirosa il cielo,
E de rime dogliose le mie carte;

E seran sempre: insin che 'l mortal gielo
Il caldo spirto mio da me non parte;
Ché ben son gitti e mei giorni sereni.


LXIX.
 
[ AEQUIVOCUS ]

Tanto è spietata la mia sorte e dura,
Che mostrar non la pòn rime né versi,
Né, per sospir on lacryme ch'io versi,
Costei se intenerisse on men se indura.

Passan le voce, e il duolo eterno dura
Ne' spirti che a doler tutti son vèrsi;
Dal ciel la luna pòn detrare e versi,
Né mover pòn questa alma ferma e dura!

Per questo, odio le rime e il tristo canto,
Nel qual, dolendo, ormai tropo me atempo
Né porgo al mio dolor alcun ajuto.

Odio me stesso e il mio cantare; e canto
Rime forzate per vargare il tempo,
E con la voce il sospirar ajuto.


LXX.

Ingrata fiera, ingrata e scognoscente
De l'amor che io te porto e te portai,
Vedi a che crudo stracio giunto m'hai,
Ingrata fiera, fiera veramente!

Se la dureza tua pur non si pente
Di voler consumar mia vita in guai,
Mira nel viso mio, se ancora assai
De li ochij tristi son le luce spente.

Mira, crudel, se ancor non ha ben còlto
Del mio languire, e la mia tanta pena
E il piagner tal che piú piangner non posso.

Mira che piú non ho colore in volto,
Né spirto in core, e non ho sangue in vena,
Né umor ne li ochij, né medolla in osso.


LXXI.
 
[ CANTUS INTERCALARIS RITHMO INTERSECTO
TERNARIUS ENIM TETRALOGON DIVIDIT] ]


Se il Cielo e Amor insieme
Destinan pur ch'io mora,
E gionta è l'ora
Che mia vita incide:

Queste mie voce extreme
Almanco sieno intese,
E sian palese
A quella che me occide.

Ma a che? se lei se 'l vede e se ne ride:
Ché aperta è ben mia doglia
A quella fiera che 'l mio cor conquide;

Et essa, che mi spoglia
E vita e libertade,
Non ha pietade
Del martir ch'io sento.

Insensata mia voglia!
Ché doler mi convene,
E sazo bene
Ch'io mi doglio al vento.

Odi, superba e altera, le mie pene;
Odi la mia rason sol una volta,
Prima che morte al crudo fin mi mene.

Se a te non è quella memoria tolta
Che aver soléi, on quella anima gentile:
Se la tua mente al tutto non è involta,

Come è scordato il dí quarto de aprile,
Quando mostrasti aver tanto diletto
De lo amor mio, che adesso è tanto vile?

Tardi ho chiarito il turbido suspetto,
Che finte erano allor tue parolette,
Finta la voce e finto il dolce aspetto.

Deh siano ambe due chiuse e maledette
Le orechie mie, che odirno tue parole,
E il simplice voler che gli credette!

Con rose fresche e con fresche viole
Lassai gelarmi el sangue ne le vene,
Che or dentro al cor giazato sí me dole,

Odi, superba e altera, le mie pene;
Odi la mia rason solo una volta,
Prima che morte al crudo fin mi mene.

Tu m'hai lassato presso, e tu, dissolta,
Prendi vageza del mio lamentare,
Che fa doler ogn'altro chi l'ascolta.

Ben te dovria lo arbitrio sol bastare,
Che Amor te ha dato, de mia morte e vita;
Ma l'un né l'altro non posso impetrare.

Tu tieni in ghiazo l'alma sbigotita,
Il cor nel foco, il mio pensiero al vento,
Né mia compagnia vôi, né mia partita.

A te par forsi un gioco il mio tormento,
Che fresca te ne stai fra l'erba e il fiore,
Né poi sentir il gran fervor ch'io sento.

Mostrar pur te potess'io dentro al core!
Che, stu fussi di marmo, io tengo spene
Che io te faria pietosa al mio dolore.

Odi, superba e altera, le mie pene;
Odi la mia rason sol una volta,
Prima che morte al crudo fin mi mene.

Alma fallita e stolta,
Che segui, ed hai seguito
Chi t'ha tradito
Sempre in falsa vista,

Il tuo pensier rivolta,
E lassa questa luce
Che te conduce
A notte oscura e trista.

Arme di Marte o inzegno di sofista
Non ponno altrui mai tòre
La libertà, che co' 'l voler se acquista.

Alma carca de errore,
Che credi aver sofrenza
A la potenza
Immensa, ben sei paza.

Or non sciai tu che Amore
La tua libertà tene?
E le catene
Sue chi le dislaza?

Odi, benigna, adunque le mie pene;
Odi li preghi mei solo una volta,
Prima che morte al crudo fin mi mene.

Prima che morte giunga, un poco ascolta
Con quella aria serena e dolce vista
Che ha già del corpo mio l'anima tolta.

Se mai pietate per servir se aquista,
Per ben servir con amore e con fede
Acquistata l'ha ben questa alma trista.

E, se non l'ha acquistata, sua mercede
Gli è retenuta; e dimanda ragione
A chi la tene, et aver se la crede.

Deh cangia la ustinata opinïone,
Candida rosa mia, rendime pace,
Che mercè te dimando in gienochione!

Soccorri a questo cor che se disface,
Che per te sola lassa ogni altro bene,
E sempre a' piedi toi languendo giace.

Odi, benegna, adunque le mie pene;
Odi li preghi mei sol una volta,
Prima che morte al crudo fin mi mene.

L'anima mia smarita e in sé racolta,
Aspetta per rissor quella risposta
Che se convien a sua fede, che è molta.

Quinci ha del viver la speranza posta,
Sperando pur che non sarrai disdire
Quel che, campando lei, nulla a te costa.

E, stu volessi forsi sostenire
La cosa in lungo, sapi e credi certo
Che lungamente non porrò soffrire.

Quanto ho possuto, tanto ho piú sofferto;
Tanto ho sofferto, che l'alma ne crida
Per non mostrarti il mio cor tutto aperto.

Nel tuo benegno viso ancor se anida
Il spirto lasso: a quel sol se ratene
La debol vita e sol in quel se fida.

Odi, benegna, adunque le mie pene;
Odi li preghi mei solo una volta,
Prima che morte al crudo fin mi mene.

Se la vita mi è tolta
E, per tua cagion, manco,
Il marmo bianco
Occulti il tuo fallire.

Cosí rimanga involta
La causa ne le tombe,
Né mai rimbombe
Chi me fa morire.

Non voglio che per me se hagia a sentire,
Né mai per mie querele,
Né odito sarà mai per mio martire.

-- Qui giace quel fidele,
(Dirà mia sepultura)
Che un'alma dura Pinse a mortal sorte. --

Ben sei, lettor, crudele,
Se lacryme non doni,
E le cagioni
attendi de mia morte.


LXXII.

Se quella altera me volesse odire,
Che tien le orechie al mio duol sí serate,
Faría sentire un laco di pietate
Nel misero contar del mio martire.

Come potrebb'io lunga istoria ordire,
Dal tempo che io perdei mia libertate,
Del grave gioco e de la crudeltate
Che ognor me occide, e vétami il morire?

Faría pietate a l'alme oscure e nigre,
Dove a gran pena mai merciè s'impetra,
Ne le tenebre inferne, orrende e basse;

Faria pietate a un cor crudel de tygre,
A un crudel cor di drago, a un cor di petra;
Faría pietate a lei, se me ascoltasse.


LXXIII.

Piú veloce che cervo, o pardo, o tygre,
Piú veloce che augello, on che saetta,
Fugito è ogni mio ben con tanta fretta,
Che io son tardo a sequir, ben che già migre.

Spietate Parche, al mio troncar sí pigre,
Come fugetti sempre chi ve axpetta,
Et a cui piú nel mondo star diletta
Drizati il viso e le mani impie e nigre!

Allor viver dovea quando fiorire
Vidi mia spene e lo amor mio novello
Libero ancor da scognosciuti inganni.

Ancie in quel tempo pur dovea morire;
Ché ben felice e fortunato è quello
Che pò fugir per morte tanti affanni.


LXXIV.

Io ho sí colma l'alma de lamenti
Formati da lo extremo mio dolore,
Che, se io potessi ben mostrarli fore,
Li ochij piagner faría che morte ha spenti.

E, bench'io li abbia forsi ancor depenti
Ne la mia fronte in palido colore,
Non sono intesi dal mondano errore,
Né a dimonstrar sua noglia son potenti.

Cosí meco rimanga nel mio petto
La angoscia mia, poi non posso monstrarla,
Né far noto ad altrui quel che mi dole;

Perché, se io me conduco nel conspetto
De quella per cui formo le parole,
Voce non ho, né ardir pur di guardarla.


LXXV.

E lieti soni e il bel dansar suave,
Li abiti adorni e le legiadre gente,
Tanta tristeza dànno a la mia mente,
Che ogn'altra noglia li saría men grave.

Crudeli Idii, fu ben che già che non ave'
In odio i canti, e il suon tanto spiacente;
Or parmi ogni allegreza un stral pungente
Che in trista angoscia il cor dolente inchiave.

E son d'altrui zoir sí roto e lasso,
Ch'io porto invidia non che a li animali,
Ma priego il Ciel che me converta in sasso.

Quai doli a le mie pene fieno equali?
Ch'io son in festa, e tengo il viso basso,
E porto odio a me stesso nei mie' mali.


LXXVI.

Misero me! che ogn'altro in lieta festa,
In lieti soni e danzie se diletta,
E l'alma mia pensosa sta dispetta,
Né dove è gente alegra mai se aresta.

Come stanco nochier, che, da tempesta
Afflitto, a la rivera il corpo gietta,
E, ben che l'unda mite se rasetta,
Pur rasettata ancora gli è molesta:

Il suon, rumor; la danzia, un andar sciolto;
Il candido color mi pare adusto;
E vil quel guardo che altri ha tanto caro.

Cosí lo infirmo da la febre còlto,
Perde il sentire e lo usitato gusto,
E quel ch'è dolcie altrui, gli par amaro.


LXXVII.
 
[ CHORUS SINPLEX ]

A che piú tanto affaticarti invano,
Pensier insano? -- Quella che tu amavi,
E per cui tu cantavi,
Te fuge come scognosciuto e strano.

Che meco ragiono io, misero lasso?
Come ancor quello amore
Non me fosse nel core,
Che sempre vi dè star, se sempre vivo!
Se ella ha il mio cor da sé bandito e casso,
Ben lo terrà in dolore,
Ma non che n'esca fore
Amor, né che di lei possa esser schivo.
Piagnendo penso ciò, piagnendo il scrivo;
Ché questa disdegnosa e gentil fera
Tanto piú se fa altiera,
Quanto piú vede il servo esser umano.


LXXVIII.

O cielo! o stelle! o mio destin fatale!
O Sole ai dui germani insieme giunto,
Che in ora infausta et infelice punto
Me solvisti da l'alvo maternale!

Lo arbitrio contra voi nulla mi vale,
Che libro meco fu da Dio congiunto;
Anzi son sí da voi sforzato e punto,
Che, vedendo il mio ben, seguo il mio male.

Ma chi altri ne incolpo io, se non me stesso?
E del mio fatto a torto mi lamento,
Ch'io per me son ligato, e nacqui sciolto.

Io non dovea tornare sí spesso spesso
A riveder quel che il veder m'ha tolto;
Tardi il cognosco, e tardi me ne pento.


LXXIX.

Chi crederà già mai ne l'altra etade,
Se in altra etade duraran mie voce,
Che il foco, che in tal pena il cor mi coce,
Non sia confinto e fuor di veritade?

Poco han di fede in noi le cose rade:
Per che in forma suave un cor feroce,
In abito gentil l'animo atroce,
Son disusata e nova qualitade.

Ma pur è giunto insieme per mio male
Quel che piú mai non giunse la natura,
Benegna faza e di merciè ribella.

Qual novo moto e sopranaturale,
Qual nobil sydo aposto in parte oscura,
Tanto crudel la fece tanto bella?


LXXX.

Itevi altrove, poi che il mio gran dolo
Per voi non manca, o versi dolorosi;
Versi, ove ogni mio senso e cura posi,
Itevi altrove, e me lasciati solo.

Voi già levasti il mio pensiero a volo
Quando fûrno e mei giorni piú giojosi;
Or che Fortuna e Amor me son retrosi,
Ite, che a voi e a me stesso me involo.

Soletto piagner voglio il mio dolore,
Ché ben soletta al mondo è la mia pena,
Ne pari in terra trova né magiore.

Chi me darà di lacryme tal vena,
Che egual se monstri nei miei pianti fore
A la cagion che a lacrimar mi mena?


LXXXI.

Solea spesso pietà bagnarmi il viso
Odendo racontar caso infelice
De alcuno amante, sí come se dice
Di Pyramo, Leandro, e di Narcyso.

Or sono in tutto da pietà diviso,
E porto invidia a lor beata vice;
Ché, de lo amor scorgendo la radice,
Vedo che il lor finir fu zoglia e riso.

Quel morì sotto il gielso, e quello in mare:
Quello a la fonte fu converso in fiore;
E Tisbe, ed Ero, e il suo desir fu sieco.

Qual duol al mio se pote assumigliare,
Ché mi torei di vita esser già fore
Se pur sperasse, morto, averla meco?


LXXXII.
 
[ ALEGORIA CANTU MONORITHMICHO
AD GENTILES MARIETAM ET GENEVRAM STROTTIAS ]


Donne gentile, a voi ben se convene
Odir ciò che ragiona il tristo core
Novellamente preso da lo errore,
Che non l'occide, e fuor di vita il tene.
A voi, per parlar vosco, se ne vene,
Gentil donne e pietose,
Che non seti orgogliose
Come colei che spreza odir sue pene;
E, ben ch'ormai desperi in terra aita,
Piacer avrà che sua ragion sia odita.

Odite come preso a laci d'oro
Fu il giovenil desir, che non sapea
Che occidesser li presi; ancie credea
Starsi zoioso fra quel bel lavoro.
Non avia visto a guardia de il tesoro
Tra l'erbe il frigido angue,
Tal che ancor ozi il sangue
Nel rimembrar me agiela, e discoloro:
Non avía visto il cor lo ascoso drago,
Tanto d'altro mirar fatto era vago!

Dolce m'è a rimembrar il tempo e il loco,
E racontarlo a voi, come io fu' preso.
A ben che il mio diletto in foco acceso,
E in giazo sia tornato ogni mio gioco.
Parrami pur, che nel parlar, un poco
Se alenti il dolor mio,
E il gielato disío
Vigor riprenda dal suo antiquo foco;
Perché ne la memoria pur me aquieto
Ramentandomi il tempo che fu lieto.

Splendeami al viso il ciel tanto sereno,
Che nul zaffiro a quel termino ariva,
Quando io perveni a una fontana viva
Che asembrava cristal dentro al suo seno.
Verdegiava de intorno un prato pieno
Di bianche rose e zigli
E d'altri fior vermigli,
Tal che ne la memoria mia rendeno
Queste isole beate, là dove era,
Dove se infiora eterna primavera.

A primavera eterna era venuto,
Al chiaro fonte, che, ridendo, occide,
Quando tra l'erba e' fior venir me vide
A lo incontro un destrier fremente e arguto.
Frenato era di fiamma, e bianco tuto;
E un fanciullo il regea,
Che tal ardir avea,
Che forza non curava o inzegno astuto.
Custui, con dardi, caciando una fera,
Me fié partir dal loco dove io era.

Sí che vagando per bon tempo andai
Per quei bei campi e incogniti paesi,
Sin che al prato arivai, dove eran tesi
I laci che se ordirno per mei guai.
Quel cavalier, ch'io dissi, sempre mai
Or dietro or nanti andando,
E talor saetando,
Sfavilava da li ochij accesi rai;
Ma io, che tenea il scudo de Minerva,
Ridea secur la sua virtù proterva.

Misero me! ché il tropo mio fidare
Di quella adamantina mia diffesa
Me impose il carco addosso che or sí pesa,
E che in eterno mi farà penare.
Sprezando de il fanciulo il saetare,
Con il scudo me copria;
E, per sventura mia,
Li ochij a' bei laci d'or veni a voltare,
Che mai piú bella cosa vide il sole,
Benché ogni giorno intorno al mondo vole.

L'esca atrativa sua, che fuor mostrosse
Di dolce umanità, mi fece sete
De pormi per me stesso ne le rete
De le qual piú giamai mia vita scosse.
Quel falso caciator alor se mosse
In vista sí suave,
Che io gli deti la chiave
Del core, e dissi: -- Io cedo a te mie posse,
Né contra a te piú mai diffesa prendo;
Eccoti il scudo a terra, a te mi rendo. --

Cosí diceva, e sí me apparechiava
Posar per sempre ne li eterni odori,
Che da l'erba gentile e da i bei fiori
Suavemente il loco fuor spirava;
Ma, mentre che a le rose me apresava,
(Ancor tutto me agielo
Ne la memoria, e il pelo
Ancor se ariza, e il viso se dilava)
Scòrsi una serpe de sí crudel vista,
Che sua sembianza ancor nel cor me atrista.

Questa superba, con la testa alciata,
Disperse in tutto quel piacer che io avea,
Tal che l'alma, che lieta se tenea,
De esser piú mai contenta è disperata.
Smarita ancor de intorno pur se guata
Se potesse fugire;
Ma e' gli convien morire,
Con tal groppo se stessa se è anodata;
Con tal nodo è agroppata e tanto forte,
Che, cosí presa, aspetta la sua morte.

Narato v'ho, cantando, la ragione
Del mio grave tormento, donne care;
E, se pietose alcun duol vi pò fare,
Doveti aver del mio compassïone.
Se alcun dirà che mia sia la cagione
De questo aspro languire,
A quel poteti dire
Che contro Amor lui venga al parangone,
E provi qual sapere on qual forteza
Un cor gentil diffenda da belleza.


LXXXIII.
 
[ MONOLOGUS ]

Li usati canti mei son vòlti in pianto,
E fugiti quei versi ch'io solea
Usar ne la stagion ch'io non credea
Che in dona crudeltà potesse tanto.

Ma, poi ch'io vedo il suo venen pur tanto
Multiplicar vie piú che io non credea,
Lasciato quel zoir che aver solea,
Convien che io mi consumi in tristo pianto.

Cosí intervene a chi pon troppo spene
In legiereza feminile, e a cui
Crescendo ognor disío, manca la spene.

Pur voría ancor sperar, ma non scio in cui,
Poi che tradito m'ha quella mia spene;
Dil che, se io vuo' dolermi, non ho a cui.


LXXXIV.
 
[ AD GUIDONEM SCAIOLAM ]

Tieco fui preso ad un lacio d'or fino,
Gentil mio Guido, e tieco ad uno iscoglio
Roppi mia nave; e sol di ciò mi doglio,
Che tieco ancor non compio il mio camino.

Io nel deserto, e tu stai nel giardino;
Tu favorito, ed io pur come soglio;
Io come vuoli, e tu non come voglio,
Prendi la rosa, dove io prendo il spino.

Piú me ne duol, perché piú de ira aduna
Colui che nudo sta nel litto solo,
E, suspirando, guata l'unda bruna,

Che quel che vide cento nave in stolo
Sparte con seco e rotte da fortuna:
Ché par che l'altrui mal ralenti il dolo.


LXXXV.
 
[ INTERCISUS ]

Qual cervo è sí vivace, on qual cornice,
On qual fenice--che si rinovella,
Che solo ad ella--reparar se lice,
Come se dice--che lo ardor la abella?

Qual pianta è quella--de antica radice
Che da pendice--mai non se divella?
Qual ninfa snella--ne la età felice
Di l'oro in vice--e mo di nostra stella?

Che mi rivella--in cosí lunga etade
Tal crudeltade--come ha questa fiera,
Che tanto è altera--della sua belleza,

Che Amor dispreza,--e spreza umanitade,
Né mai pietade--fu ne la sua schiera,
Ancie è bandiera--e capo d'ogni aspreza?


LXXXVI.

De qual sangue Lernéo fu tinto il strale,
Di qual fiel di cieraste o anfisibena,
Il stral, che il cor mi punge in tanta pena,
Che altra nel mondo a quella non è equale?

Ognor se va piú dilatando il male,
E sparso è già el venen per ogni vena,
Tanto che a forza al crudo fin mi mena,
Né arte de Apollo a tal ferita vale.

Non vale arte de Apollo e la mente egra;
Ché l'alma sciolta ha pena assai magiore,
E piú diletto; e piú teme, e piú spera.

Scioca dunque la mia, che se ralegra
Sciolger dal corpo per sciolger d'amore:
Ché, sciolta, fia pur serva a questa fiera.


LXXXVII.
 
[ AD AMOREM INTEROGATIO ]

-- Qual possanza inaudita, on qual destino
Fa, signor mio, che te rivegia tale,
Che hai li ochij al petto, e al tergo messo l'ale,
E fuor de usanza porti il viso chino?

De unde venuto sei? per qual camino
A rivedermi nel mio extremo male
Sanza l'arco dorato e sanza il strale,
Che me ha fatto a me stesso perregrino? --

-- Io vegno a pianger teco, e tieco ascolto
Il tuo dolore e la tua sorte dura,
Che da lo abito mio sí m'ha rivolto.

Tu sei tradito ed io dal piú bel volto
Che al mondo dimostrasse mai Natura:
Questo a te il core, a me lo strale ha tolto. --


LXXXVIII.
 
[ ITEM AD EUNDEM ]

-- Se dato a te mi sono in tutto, Amore,
A cui di te me degio lamentare? --
-- Al Cielo, al mondo, et a me, s'el ti pare,
Che a' mei sugetti son justo signore. --

-- Il Ciel non me ode; il mondo è pien de errore;
E tu non degni e miseri ascoltare:
Pur noto al Cielo, al mondo, e a te vuo' fare
Che nel tuo regno m'è rapito il core. --

-- Nel regno mio non dir; ché in cosí trista
Parte non regno, né regnar poría,
Benché a te paja sí giojosa in vista.

Questa superba, che il tuo cor disvía,
Meco contende spesso, e tanto aquista,
Che io mi disprezo e la possanza mia. --


LXXXIX.
 
[ CHORUS SEMISONUS ]

Fu creato in eterno da Natura
Mai voler tanto immane,
Fra l'unde Caspe, on ne le selve Ircane?

Qual tygre in terra, on qual orca in mare,
Che tanto crudel sia,
Che a costei ben si possa assumigliare?
Vuol questo il Ciel, o la sventura mia,
Che io sia sforzato amar quel viso altero?
Ché, a confessar il vero,
Tanto piú l'amo, quanto piú m'è dura.


XC.

Tra il Sonno e Amor non è tregua né pace,
Ché quel riposo, e questo vol fatica;
Il foco l'uno, e l'altro umor nutrica;
Quel crida e piangne, e questo eterno tace.

L'un sempre vola, e l'altro sempre jace;
Questo la cura soglie, e quello intrica;
A l'un la luce, a l'altro è notte amica;
Pigrizia a quel diletta, a questo spiace.

Quiete universal de gli animali,
Che domi e tygri e rigidi leoni,
Né pòi domar un amoroso core,

Come la notte sempre me abandoni,
Come éi del petto mio bandito fore,
Per che io non abbia sosta nei mie' mali?


XCI.

Se alcun per crudeltà de amor sospira,
Percosso da fortuna e zelosia,
Legia lo affanno e la sventura mia,
Ché in me l'altrui dolor se specchia e mira.

Soverchio dolo a lamentar me tira,
Che tolto m'è quel ben che aver solía;
Colei, che la mia vita in man tenía,
Sanza ragion vér me se è volta in ira.

Né scio se la fallace finga forse
El sdegno e il crucio, per tenire in cima
E far altrui del mio languir contento.

Non scio: né de ciò el cor mio mai se accòrse;
Ma se esser pur dovesse, io voría prima
Morir, non de una morte, ma de cento.


XCII.

Ormai son giunto al fine, ormai son vinto,
Né piú posso fugir né aver diffesa;
Quel desir, che tenea mia voglia incesa,
È da gieloso nymbo in tutto extinto.

Deh! che dico io? che sí m'ha il cor avinto
Questa indovuta e inaspetata offesa,
Che l'alma, che vagava, adesso è presa:
In tutto è presa e posta in labyrinto.

Chi mi trarà già mai del cieco errore?
Ché rotto è il filo e rotta è quella fede
Che era de lo errar mio conforto e duce.

Piú non spiero pietà, non piú mercede,
Abandonato, solo, e sanza luce;
Né meco è piú se non il mio dolore.


XCIII.

Qual fia il parlar che me secondi a l'ira
E corresponda al mio pianto infelice,
Sí che fuor mostri quel che 'l cor mi dice,
Poi che fori il dolore a forza il tira?

Pur vedo mo che per altrui sospira
Questa perfida, falsa e traditrice;
Pur mo lo vedo: né inganarme lice,
Ché l'ochio mio dolente a forza il mira.

Hai donato ad altrui quel guardo fiso
Che era sí mio ed io tanto di lui,
Che, per star sieco, son da me diviso?

Hai tu donato, perfida, ad altrui
Le mie parole, e mei cinni, il mio riso?
Oh justicia, dal ciel riguarda a nui!


XCIV.
 
[ TETRASTICUS CANTUS QUATUOR RITHMIS COMUTATO] ]

Rime inaudite e disusati versi
Ritrova il mio disdegno;
Ma nel novo rimar non toca il segno
Sí, che al par del dolor possa dolersi.
Le voce perse indarno, i passi persi,
Il perso tempo in la fiorita etade.
E tutto quel che per costei sofersi,
Fan di me stesso a me tanta pietade,
Che un nymbo lacrimoso il cor me invoglia,
E poi da li ochij cade,
Né lascia fuor uscir l'ardente noglia.

E, pur cosí confuso, a scoprir vegno
Quel che già ricopersi;
E cosí gli ochij e il cor hagio conversi
A chi me impose il peso ch'io sostegno.
Dov'è quel tuo felice e lieto regno,
Falace Amor? Falace, ove è la zoglia
Che me se impromettea per fermo pegno?
Miser colui che per te si dispoglia
Il proprio arbitrio e la sua libertade,
Con sperar che si soglia,
Per tempo o per pietà, tua crudeltade.

Ahi lasso me! ché questo piú me adoglia,
Che, sapendo io tua penta falsitade,
Sapendo come rade
Volte del seme tuo frutto si coglia,
Lassai portarmi a la sfrenata voglia,
E tardi doppo il danno li ochij apersi;
Tardi, ché piú non fia che indi me stoglia.
Ma per qual cor gentil quai laci fêrsi
Già mai con tanto inzegno,
Quando io stesso a mia voglia me copersi
Nel nodo che mostrava sí benegno?

Chi avría creduto mai che tal beltade
Fosse sí cruda? e che sí ferma voglia
Fosse poi come foglia,
Mostrando grave fuor sua levitade?
Coperto orgoglio e finta umanitade
Fòr quei che me pigliar sanza rategno,
E che m'han posto in tal captivitade.
Fanciul protervo, perfido e malegno,
Che da li ochij mei versi
Quel duol, de che il mio cor fu tanto pregno,
Parti a mia fede questo convenersi?

Crudele istelle! e cieli a me perversi,
Che fuor creasti in lei tal nobiltade,
Che il perfido suo cor non pò vedersi;
Crudele istelle! che tal novitade
Creasti al mondo per mia eterna doglia,
Monstratime le strade
Che a voi ne venga, e da costei mi toglia.


XCV.

Fu forsi ad altro tempo in donna amore,
Forsi fu già pietade in alcun petto,
E forsi di vergogna alcun rispetto,
Fede fu forsi già in feminil core.

Ma nostra etade adesso è in tanto errore,
Che dona piú de amar non ha diletto,
E, di dureza piena e di dispetto,
Fede non stima, né virtù, né onore.

Fede non piú, non piú ve è de onor cura
In questo sexo mobile e falace,
Ma volubil pensier e mente oscura.

Sol la natura in questo me despiace,
Che sempre fece questa creatura
O vana troppo, o troppo pertinace.


XCVI.
 
[ SUPERIORI EADEM RESPONDENS DESINENTIA ]

Ben cognosco oramai che il mio furore
Non ha piú freno on di ragion objetto;
Il sdegno mio, che un tempo fu concetto,
È pur con chiara voce uscito fore.

Perdon vi chiezo, donne, se il dolore
Ha fatto trabocar qualche mio detto;
Ché Veritade e Amor me n'ha constretto:
Quella me è amica, e questo me è signore.

Certamente altrui colpa, o mia siagura,
Che a torto a mio parer l'alma mi sface,
Al justo lamentar me rassicura.

Donati al mio fallir, donne mie, pace;
Ché a tacer tanto duolo è cosa dura,
E poco ha doglia chi, dolendo, tace.


XCVII.

Qual soccorso mi resta, on qual ajuto,
Se chi ajutar mi pòte non soccore?
Pur me destino de lasciare amore,
Prima che 'l corpo mio sia sfatto in tuto.

Hagio gli incanti di quel vechio arguto
Che regea Bactra, ed hagio de lo umore
Di Lete inferna, e la radice e il fiore
Che fe' Ulysse a Circe scognosciuto.

Ma in che me affido, lasso! che arte maga
Soglia da amore? E non sciolse Medea
Con l'erba Scyte e canti di Tesaglia.

Lei non poté saldar l'ardente piaga
Che avea nel cor, con quanto ella sapea:
Ché contro amor non è forza che vaglia.


XCVIII.
 
[ CHORUS DISIUNCTUS ]

Deh! non monstrar in vista
Che 'l mio languir ti doglia, disleale;
Ché il cor tradito piú se ne contrista
E piú crescie el suo male.

Questo tuo divo, a cui nullo altro è equale,
Rida la pena mia,
E stíasi in signoria
Di, te, poi che de onor nulla ti cale.
Ma, se vendetta il danno a levar vale,
Non fia longa la lista
De lo amor vostro; ché il pensier ti vola,
Né lui fu mai contento de una sola.


XCIX.

Misero quivi e sconsolato e solo
Me son radutto per fugire Amore,
Se fugir pòsse quel che se ha nel core,
Per piangner, per languir, per star in dolo.

Cosí, mei cari amici, a voi me involo,
Per non vi apartegiar nel mio dolore,
Che a l'alma trista dà tanto terrore,
Che aperte ha l'ale per fugirse a volo.

Viver voglio cosí, cosí morire,
Poi che piace ad Amor che cosí viva,
E che cosí tra saxi amando pera.

Quella crudel, che la mia vita schiva,
Farà pur sazia la sua mente altera,
Se parte del mio dol potrà sentire.


C.

Voi, monti alpestri, (poi che nel mio dire
La lingua avanti a lei tanto se intrica,
E il gran voler mi sforza pur ch'io dica),
Voi, monti alpestri, oditi il mio martire.

Se Amor vòl pur che sospirando expire,
Amor, che in pianto eterno me nutrica,
Fatti voi noto a quella mia nemica
Nanti al mio fin, ch'io vò per lei morire.

Voi me vedeti sol, con lento passo
Ne' vostri poggi andarmi lamentando
De li ochij mei, non già del suo bel viso.

De li ochij mei se dole il cor mio lasso,
Che il religarno in foco e in giazo, quando
Scoprirno a lui quel volto e il dolce riso.


CI.

Fûr per bon tempo meco in compagnia
Giovani lieti e liete damigelle;
Piaquerme un tempo già le cose belle,
Quando con la mia età lo amor fioría.

Or non è meco piú quel che solía;
Solo il languir da me non se divelle,
E solo al sole, e solo a l'alte stelle
Vo lamentando de la pena mia.

Ripe de fiumi e pogi di montagne
Son or con miecho; e son fatto selvagio
Per boschi inculti e inospite campagne.

Qualor al poggio on nel fresco rivagio
Me assido, del mio mal conven me lagne;
Ché altro rissor, che lamentar, non hagio.


CII.

Ben è fallace il sogno, e falso il segno
Che se dimostra a l'animo sopito;
Quella crudel, che a torto m'ha tradito,
Come sembrava mo di cor benegno!

-- Or pòi tener (dicea) per fermo pegno
Lo animo mio, che sempre è teco unito,
Né da te per tuo crucio è mai partito,
Né mai se partirà per tuo disdegno.

Vedi che adesso a consolarti vengo,
Adesso che il venir non m'è interditto,
Né, contro a te, quel cor, che cridi, tengo. --

Cosí diceva; e sí con viso fitto
Parea parlar, che lacrymar convengo,
D'ognor ch'io lo rimembro, al cor afflitto.


CIII.

Con che dolce concento insieme accolti
Se vano ad albergar quei vagi occelli,
Vegiendo come l'umbra il mondo velli,
E i ragi del gran lume in mar involti!

Felici océi! che, de ogni cura sciolti,
A riposar ne giti lieti e snelli;
Or par che 'l mio dolor se rinovelli
Quando è la notte, e non è chi l'ascolti.

E, come l'aria intorno a noi se imbruna,
Cosí dentro se anera il pensier mio
Nel rimembrar de le passate offese.

Qui tutte le rivegio ad una ad una:
Sua finta umanità, suo pensier rio,
Che se coperse sí quando me prese.


CIV.
 
[ MANDRIALIS CANTU DIMETRO RITHMO INTERCALARI ]

Se io paregiasse el canto ai tristi lai,
Qual già fece Arïone
E la temenza de li extremi guai,

Forsi cosí faría compassïone
Al veloce delfin questo cantare;
Tanta pietade ha in sé la mia ragione!

Qual monstro sí crudel nel verde mare,
Che non tornasse a tanto mal pietoso,
Se il mio dolor potesse dimonstrare?

Qual animal tanto aspro et orgoglioso,
E qual bellua sí immane, che dolere
Non fèssi del mio stato doloroso?

Farebi a' sassi tenereza avere
Del mio cordoglio, e le cime inclinarsi
De' monti, e a' fiumi il suo corso tenere.

Ogni cosa potrebbe umiliarsi,
Se non quella spietata, che non cura
Per prieghi on per pietà benigna farsi,
Ma, per li altrui lamenti, piú se indura.

Adunque, poi che il ciel a noi se oscura,
E il gran pianetto la sua luce asconde,
Posso dolermi intra le verde fronde,
E dar al ciel le mie voce meschine;

Ché, cosí lamentando, il tempo passa
Che a me dilunga lo aspettato fine;
Ben che cantando il mio duol non mi lassa,
Né lasserà, per quel ch'io creda, mai.

Or cominciamo li dolenti lai
Qua sotto l'aria bruna,
Ricominciamo i canti pien di guai.

Diceti, stelle, e tu, splendida Luna,
Se mai nei nostri tempi o ne' primi anni
Simile a questa mia fu doglia alcuna?

Diceti, se piú mai cotanti affanni
Sofferse uom nato per amar con fede,
Guiderdonato poi di tanti inganni?

Voi ben sapeti che la mia mercede
M'é dinegata e ritenuta a torto;
Sàsselo il Ciel con voi, che il tutto vede.

Sapete ben con qual losenge scòrto
Fosse ne la prigion, là dove, invano
Aspettando mercié, son quasi morto.

Sapeti come fuor me aparve umano
Quel guardo che me incese a poco a poco
Di quel fervor, che tanto è fatto insano
Che lo arder suo dimostra in ogni loco.

Ben ch'ormai piú non ardo, ch'io son foco,
Ché nulla trova piú che arder mi possa
La fiamma, che m'ha rôso i nervi e l'ossa,
E sanza nutrimento vive ancora:

Sarà quel giorno mai ch'io veda extinto
Questo foco immortal? sarà quel'ora
Ch'io veda il cor mio libero e discinto
De' laci ove io me stesso me legai?

Laci di bei crin d'or, che in tanti lai
Me faceti languire,
Tenendomi legato in pianti e in guai,

Come potrò mia noglia ad altri dire,
Che mi teneti in tal captivitade,
E non lassati a pena ch'io sospire?

Odeti, selve, e prendavi pietade
Del mio dolor, che a tutti è disequale
Che sia in la nostra on fusse in altra etade.

Tu, che hai de la mia mano il bel signale,
Arbor felice, e ne la verde scorza
Inscritta hai la memoria del mio male,

Strengi lo umor tuo, tanto che si smorza
Quel dolce verso che la chiama mia,
Ché, ognor che io il lego, a lacrymar mi forza.

Non è piú a me, non, no, quel che solía,
Ché la crudel fortuna me l'ha tolta:
Ancie sua legereza e sua follía,
Che a la promessa fede ha dato volta.

Né piú mie' prieghi o mia rason ascolta,
Che ascoltin questi tronchi sanza senso.
Oh noglia scognosciuta! oh dolo immenso.
Che tanto è grande, e par che altri no'l veda!

Ché assai minor angoscia ha un cor dolente,
Quando si dole e par che altri gli creda;
Ma io, che ho le mie pene sí patente,
Credenza on fede ancor non gli trovai.

Debo tacer adunque questi lai
Che l'alma mia sostene?
Debo io tacere, e consumarme in guai?

Doglia mi forza, e parlar mi convene,
Ché piú non pò tenere il tristo petto
Colmo de affanno e di soverchie pene.

E, poi che a me rapito è quello aspetto,
Quel dolce aspetto che mia vita incese,
Parlar a l'aria e al vento haggio diletto.

Tu, che li mei desir senti palese,
Aura suave, che in questa rivera
Con le tremante foglie fai contese,

Sentendo quale sono io e quale io era,
Non che tu ne dovristi esser pietosa,
Ma Borea, di natura alpestra e fera.

Già me vedesti in faccia piú giojosa,
Se te rimembra ben, ch'io te aspettava
Fatta dal spirto suo piú grazïosa,
Quando io la sua forma, e lei sua fede amava.

Lasso! che il lamentar non mi disgrava
Da quel peso crudel che l'alma incarca.
Sí come il perregrin che l'alpe varca,
Che al piú salir, piú prende de fatica,

Cosí piú de tristeza al cor me adduce
Il mio cantar, e piú di duol me intrica;
E non ho posa quando il mondo ha luce,
Né quando il Sol sottera asconde i rai.

Tu dài riposo, Notte, ai tristi lai
De tutti li animali,
E doni smenticanza a tutti e guai.

Tu, Notte, le fatiche a zascun cali;
Et io, ne l'umbra tua disteso in terra,
Non prendo posa dai mei eterni mali.

Ma allor piú se rinfresca la mia guerra,
Quando per te si copre il nostro polo,
Che sotto il suo emispero il giorno serra,

Allor mi vedo sconsolato e solo,
E porto invidia a ogni animal terreno,
Che allor se aqueta, e non sente il mio dolo.

Dormen li ocelli in fronda al ciel sereno,
Le fere in bosco e né frondosi dumi,
Nei fiumi i pesci e dentro al salso seno.

Et io, pur ne li antichi mei costumi,
La notte umido ho il viso, umido al sole:
Fenir mia vita tosto si convene,
Perché quel cor spietato cosí vole.

Ben sei, Notte, crudel, se non ti dole
Del mio dolor e de mia pena acerba,
Che me vedi jacer pallido a l'erba,
Né poter impetrar morte con prieghi.

Odi tu, Notte, il mio lamento amaro;
Deh, fa che il tuo poter non me se neghi!
Fa a coste' in sogno manifesto e chiaro
Quanto ora l'amo e quanto già l'amai.

Misero, lasso! a che cotesti lai
Raconto, e i crudi stenti,
A chi nulla sentir può di mie' guai?

Io spargo al cielo invano e mei lamenti,
A l'aura e a' boschi invano odir mi facio,
Invano a l'umbre sanza sentimenti.

Tu sola, che potevi il stretto lacio
Lassar alquanto, te prendi vagheza
Vedendo con qual pena io me disfacio.

Che maledetta sia quella dureza
Che te è nel cor gelata, e il falso amore
Che giunse a crudeltà tanta belleza!

Maledetto esca in pianti quello umore
De li ochij mei, che se invaghí sí forte
De il tuo bel viso, e che lo mostrò al core!

Tu m'hai, fera crudel, a mortal sorte
Condutto, e pur sembiante ancor non fai
Che te piaza on rincresca la mia morte;

Ché assai minor forían mei tristi lai,
Se i' credesse de averti
Fatta pietosa alquanto de' mei guai,
On ver, morendo, un poco compiacerti.


CV.

Se Amor me fosse stato sí giojoso,
Come il crudel m'ha sempre a torto offeso,
Avrebbe del mio foco un fiume acceso
E il ciel intorno a me fatto amoroso.

Ma il canto mio fu sempre doloroso,
A noglia, a pianti, a lamentar inteso;
E, se lieto il monstrai quando io fui preso,
Fume al principio il mio dolor nascoso.

Sí me abagliava quella incesa voglia,
Che assai pur mi parea di poter dire
Del dolce tosco unde avea l'alma piena.

Or voría ben cantar, ma la gran doglia
La voce me combate in tal martire,
Che, non ch'io canti, ma sospiro a pena.


CVI.

Mira quello ocellin che par che senta
De la tua pena, misero mio core,
E tieco insieme piangne del tuo errore,
Piangne cantando, e tieco se lamenta.

Come esser può che il Cielo e Amor consenta
Che a ogni animal rincresca il mio dolore,
Se non a lei, che monstra pur di fore
Umana vista e di pietà dipenta?

Sola non cura il mio tristo languire,
E sola il può curar; ché solo a lei
Il mio vivere è in mano e il mio morire.

Or vedi, altiera, quanto crudel sei!
Che a pietà non ti move il mio martire,
Che fa con meco lamentar gli occéi.


CVII.

Ombrosa selva, che il mio dolo ascolti
Sí spesso in voce rotta da sospiri;
Splendido sol, che per li eterni giri
Hai nel mio lamentar piú giorni vòlti;

Fiere selvage e vagi océi, che sciolti
Seti da li aspri e crudi mei martiri;
Rivo corrente, che a doler me tiri
Tra le ripe deserte e' lochi incolti;

Voi seti i testimon de mia vita!
Palesatila voi, fatine fede
A quella altiera, che la aveti odita.

Ma a che? se lei che tanto dolor vede
(Ché pur mia noglia a riguardar la invita)
Vedendo istessa, a li ochij soi non crede.


CVIII.

Per l'alte rame e per le verde fronde
Non ho mie voce al tutto messo invano,
Che il senso a li ocelleti è fatto umano
Tanto che il nome tuo non se nasconde.

Ne sol gli océi, ma ancor le petre e l'onde
Hanno pietà del mio dolor insano;
E il fiume apresso, e il monte di lontano,
Come io soglio chiamar, cosí risponde.

Perché me stesso ingano alcuna volta,
E parlo sopra l'onde a le pendice,
Poi che fortuna e sdegno te m'ha tolta.

Allor son quasi nel mio mal felice:
Ché quella alpestra ripa sí me ascolta,
Che l'ultime parole me ridice.


CIX.
 
[ CHORUS IUNCTUS ]

Come esser può che in cener non sia tutto
Il corpo mio, che un tal ardor consuma,
Che avrebbe il mar d'ogni liquor asciutto?

Miser! non vedi come eterna piova
Te stilan li ochij, e il cor dolente fuma,
Che arder non pòte, e sua doglia rinova?
Per mia pena si prova,
Per mio exemplo se aluma
Quanto di mal si trova
Quel petto, ch'é cresciuto
Ne la inferna lacuma,
Quanto piú fu pasciuto;
E la pena di quel che 'l foco ha dato,
Che, a un saxo religato,
Un uciel sempre pascie
Di sua mirabil fibra che rinascie.


CX.

Con tanta forza il gran desir me assale,
Che ogn'altra pena è a sostener minore;
Dica chi vuole, il tutto vince Amore,
Né al suo contrasto è in terra cosa equale.

Fugito ho l'ozio, e quel fugir non vale;
E fugio lei, né fugio il mio furore;
Sol può dar vita al tramortito core
La vista, che è cagion di tanto male.

I corenti cavalli e cani arditi,
Che mi solean donar tanto diletto,
Mi sono in tutto dal pensier fugiti.

Ciò che solea piacermi, ora ho a dispetto;
E lo esser mio distinguo in dui partiti:
On arder quivi, on giazar nel suo aspetto.


CXI.

Qual si move constretto da la fede
De' Tesalici incanti il frigido angue,
E qual si move trepido ed exangue
Il Mauro cacciator che il leon vede:

Tal il mio cor, che a la sua pena rede,
Si move sanza spirto e sanza sangue,
E giela di paura e trema e langue,
Perché de aver piú pace mai non crede.

Egli è constretto a gire, e gir non vòle:
Ma, contro il suo voler, Amor il tira
Perché il dolor antiquo se rinove.

Lui cognosce ch'ei va da neve al sole,
E piú non pò; ma lacryma e sospira,
E, paventoso, il passo lento move.


CXII.

In questo loco, in amoroso riso
Se incominciò il mio ardor, che rescie in pianto;
Tempo fallace e ria fortuna, quanto
È quel ch'io son, da quel che era, diviso!

Quivi era Amor con la mia donna assiso,
Né mai fu lieto e grazïoso tanto;
Allor quest'aula de angelico canto
Sembrava e de adorneza un paradiso.

Quanto, a quel tempo, questo se disdice!
Di questa corte è mo bandito Amore,
Sieco alegreza e cortesia fugita.

Et io qui rinovello il mio dolore:
Ché il loco dove io sono or me ne invita
Per rimembranza del tempo felice.


CXIII.

Non piú losenghe, non; ché piú non credo
A finti risi e a tue finte parole;
Non piú, perfida, non; ché non ti dole
Del mio morir, al qual tardi provedo.

Già me mostrasti, ed or pur me ne avedo,
Rose de verno e neve al caldo sole;
L'alma tradita piú creder non vole,
Né io credo a pena piú quel che ben vedo.

Cosí avess'io ben li ochij chiusi in prima,
Come Ulysse le orechie a la syrena,
Che se fie sordo per fugir piú male!

Cosí avess'io davanti fatto stima,
Come da poi, del duol che alfin mi mena!
Ché il pensar doppo il fatto nulla vale.


CXIV.

Lo Idaspe, il Gange e l'Indo aggiaceranno
Là sotto il Cancro nel cerchio focoso,
E nel spirar di Bora furioso
Li monti Iperborei rinverdiranno;

Quando gli Scyti il Sol piú longe avranno,
Vedrassi in neve il monte Cassio ascoso;
E, nel tempo piú freddo e piú guazoso,
Istro, la Tana e Araxe fumaranno.

Qual cosa fia che non muti natura?
Li orsi nel mare e il delfin ne l'alpe
Vedremo andar, la luna dove il sole;

La terra molle, e l'unda farsi dura;
Il tygre dama, e il lynce farsi talpe,
Se io costei fugio, e lei seguir me vole.


CXV.
 
[ SEMISENARII ]

Sí come canta sopra a le chiare unde
Il bianco cegno, giunto da la morte,
Fra l'erbe fresche, e l'ultime sue voce
Piú dolcemente de adornar si forza,
Forsi per far al Ciel qualche pietade
Del suo infelice e doloroso fine:

Cosí ancor io, davanti che il mio fine
Me induca a trapassar le infernal unde,
Poi che non ho soccorso da pietade,
Voglio cantar, inanzie la mia morte,
Quel duol che il cor mi serra e sí mi forza,
Che il passo chiude a le mie extreme voce.

O che fossero odite queste voce
Da quella altiera che me caccia al fine
De la mia vita, e che lassar mi forza
Il suo bel viso, prima che ne l'unde
Di oscura Lete mi bagnasse morte!
Forse gli soverria di me pietade.

Deh! come credo che già mai pietade
Tochi colei per lamentevol voce,
Che non si placa e vede la mia morte?
Crudel stella de Amore! è questo il fine
Che convien a mia fede? ove son l'unde
Che di lavar tal machia abbian mai forza?

La tua perfidia a lamentar mi forza,
Fera fallace e vôta di pietade,
A ben ch'io sapia che al rio vento e a l'unde
Del mar turbato gieto queste voce.
Ma che, se pur me ascolti? ché già al fine
Del tanto sospirar me aduce morte.

Fosse pur stata allora questa morte,
Quando lo amor mio stava in summa forza:
Ché nel tempo giojoso è meglio il fine.
Adesso che mancata è ogni pietade,
Cerco con prieghi e con pietose voce
Placare l'aura, il vento, il foco e l'unde.

Pietose farían l'unde--a la mia morte
Queste mie voce;--e non pono aver forza
Porre in costei pietade--del mio fine!


CXVI.

Oggi ritorna lo infelice giorno
Che fu principio de la mia sagura:
E l'erba se rinova e la verdura,
E fassi il mondo di bei fiori adorno.

Et io, dolente, a lamentar ritorno
De Amor, del Cielo, e di mia sorte dura,
Che adesso infiama la vivace cura
Che se agelava al cor dolente intorno.

El tempo rivien pur, come era usato,
Fiorito, alegro, lucido e sereno,
Di nymbi raro, e di folta erba spesso.

Et io son da quel ch'era sí mutato,
De isdegno, de ira e sí de angoscia pieno,
Che il giorno riconosco, e non me stesso.


CXVII.

Già per lo equal suo cerchio volgie il sole,
Lasciando il fredo verno a le sue spale,
E per li verdi colli e per le vale
Son le rose odorate e le viole.

Ma tu non vidi come se ne vole
Il tempo leve, misero mortale,
Che stai pur fermo ne lo usato male,
E de i perduti giorni non ti dole.

Ricordite, meschin, che in tal stagione
Il tuo Fattor per te sofferse pena
Per liberarti de eterna pregione.

Io piú non posso, perché error mi mena
Dove io non voglio; e la stanca ragione
Contro a la fresca voglia ha poca lena.


CXVIII.

Sovente ne le orechie mi risona
Una voce sotil che mi ramenta
Li falli andati, e dice che io me penta
Perché a' pentuti il suo Signor perdona.

Io, come quel che pur non abandona
La veste incesa e del foco paventa,
Ho nel mio core ogni virtù sí spenta,
Che nulla assente a la ragion che il sprona.

Lasso mio core, e simpliceto e fole,
Che traportar te lassi a quel desío
Che a molti ha tolto, e a te la vita tole,

Convértite, convértite al tuo Dio;
Ché, se lui per camparti morir vole,
E tu te occidi, ben sei piú che rio.


CXIX.

Le bianche rose e le vermiglie, e i fiori
Diversamente in terra coloriti,
E le fresche erbe co' i suavi odori,
E li arborselli a verde rinvestiti,

Sòlveno altrui ben forsi da rancori,
E rinverdiscon gli animi inviliti,
Ma a me piú rinovelano e dolori
Le verde piante e i bei campi fioriti:

Ché io vedo il mondo da benigne stelle
Adorno tutto in sua novella etade
Mostrar di fuor le sue cose piú belle.

E la mia fera da sua crudeltade
Né da la sua dureza mai se svelle,
Né il dolcie tempo fa dolcie pietade.


CXX
 
[ CAPITALIS DUPLEX ]

Gentil madone, che veduto aveti
Mia vita incesa da soperchio ardore,

E ciò che fuor monstrar m'ha fatto Amore,
Ardendomi vie piú che non credeti:

Non scio se nel parlar mio ve accorgeti
Remoto da me stesso esser il core;

E spesso, per aver tal parte fore,
Io me scordava quelle che voi seti.

Voi sete in voce in vice di Syrene,
Et io vi parlo con rime aspre, e versi

Rigidi, e note di lamenti piene.
Trarami forsi ancor mia Dia di pene,

E canti scoprirò ligiadri e tersi:
Allora avreti quel che a voi convene.

FINIS SECUNDI LIBRI.




MATTHÆI MARIÆ BOIARDI
COMITIS SCANDIANI
AMORUM LIBER TERTIUS


CXXI.

Quella nemica mia che tanto amai,
Et amo tanto ancor, contro a mia voglia,
Sí de drito voler il cor me spoglia,
Che a seguirla son vòlto piú che mai.

Cosí avesse io, dal dì che io cominciai,
Disposto quel desir che oggi me invoglia,
Con tempo, a poco a poco, a soffrir doglia:
Ché a l'assueto è il dol minor assai.

Tratto fui gioveneto in questa schiera,
De lo 'ncarco d'Amor sí male accorto
Che ogni gran salma mi parea ligiera.

Ora sostegno tanto peso a torto,
Che maraviglia non è già ch'io pera,
Ma da maravigliar che io non sia morto.


CXXII.

Dal lito orïentale or surge il sole
Che a' miseri mortali il giorno mena,
Et io ritorno a racontar mia pena,
E dar al ciel l'usate mie parole.

Se Amor ingrato e ria Fortuna vole
Che ne la vita mia, de nymbi piena,
Sperar non possa un'ora piú serena,
Ben a ragion quest'alma se condole.

Anzi a gran torto se lamenta e adira
L'anima fol, che al generoso foco
Ardendo sí suave se disface.

Piangne cantando e ridendo sospira,
In lieto affanno, in lacrimoso gioco,
Pena sí dolcie, che penar li piace.


CXXIII.

Prima cagione a l'ultimo mio male,
Dritto viagio del mio torto errore,
Stilla fresca pietade a tanto ardore,
Ché altro rimedio al mio scampo non vale.

Ben cognosco me stesso, e non son tale
Che potesse fugir dal mio signore;
Egli è d'alto ardir pieno, io di terrore:
Io grave e inerme, et egli ha il dardo e l'ale.

Io no posso fugir, né fugir voglio,
Ché tanto libertà prezar non degio,
Quanto il bel lacio d'or che il cor me anoda.

E, se captivo in sua pregion me vegio,
Dico palese, e vuo' che il mondo m'oda,
Che non d'Amor, ma sol di te mi doglio.


CXXIV.

Dovunque io son se canta e se sospira,
Di spene si ragiona e di paura;
Or pietosa sembianza, or vista dura
A tempo me rafrena, a tempo agira.

Crudeltà me contrasta, Amor me tira
A la preda gientil che il cor me fura;
Et ella or mi spaventa, or me asicura,
Or mi dà pace et or meco se adira.

Ardo entro a un giazo sí splendido e puro,
Ché in tanta pena, sol per lui mirare,
Jacio nel foco, e non mi scio partire.

Donne amorose, per Amor vi giuro
Che e' non ha il mondo, in quanto cingie il mare,
Viver sí dolce, on sí dolcie morire.


CXXV.

Se in morïente voce ultimi pregi
Han forcia di piatade in alcun core,
Odi la voce di un che per te more,
Crudiel, che al fin ancor mercié mi niegi.

Tu me vedi morire e non te piegi,
O cor di pietra, a l'ultimo dolore;
E sai che altro non priego il Cielo e Amore
Che da le membre l'anima dislegi.

Ma nulla vien a dir; ché Idio destina
Il fine a tutti li animanti in terra,
Né, perché io preghi, a' mei prieghi declina.

Dona tu pace adunque a tanta guerra;
Ché fia tropo la mia vita meschina,
Se tu pietade, e il Ciel morte mi serra.


CXXVI.

Quel fiamegiante guardo che me incese
E l'osse e le medole,
Quelle dolcie parole
Che preson l'alma che non se diffese:

Vòlto han le spalle; e me co 'l foco intorno,
Anzi dentro dal petto, han qui lasciato
A le insegne d'Amor preso e legato,
Né speranza mi dan di suo ritorno.
Cosí stando captivo, il lungo giorno
Tutto spendo in pregiera;
Cosí la note nera,
Merciè chiamando a quella che mi prese.


CXXVII.

A l'ultimo bisogno di mia vita
Non dinegati ajuto al core infermo;
Tutte altre vie son rotte, ogni altro scermo,
Ogni rimedio, ogni altra speme è gita.
Ne la vostra pietà sol spero aita,
In voi soletta ogni speranza fermo;
Altri che voi da l'amoroso vermo
Campar non pòte l'anima ferita.
Adesso che vedeti farmi giaza
Per quel fredo crudiel che v'è nel core,
Rencresavi che io manchi in tante pene.
Amar vi voglio: e che non vi dispiaza
Richiegio in guiderdon di tanto amore;
A voi ciò poco, a me fia summo bene.


CXXVIII.

La fiamma, che me intrò per li ochij al core,
Consuma l'alma mia sí dolciemente,
Che a pena il mio morir per me si sente,
Tanto suave infuso è quello ardore.

Come colui che in somno dolcie more
Morso da l'aspe, e con l'ochio languente
Rifiuta il giorno, e la torpida mente
Senza alcun senso perde ogni vigore:

Cosí ancor io, del mio dolcie veneno
Pasciuto, vo mancando a poco a poco,
Né posso del mancar prender sospetto;

Ché, a ben che io senta il spirto venir meno
Non cerco per campar spegner il foco,
Per non spegner con seco il mio diletto.


CXXIX.

Duolmi la mia sventura; e piú mi dole
Che mostrar non la può la penna mia;
Anci la mostro: e piú la mostrería
Se me ascoltasse chi ascoltar non vòle.

Feci mia doglia nota in cielo al sole,
In mar a gli delfin già per folia,
E lamentai de la fortuna mia
Già su la verde piagia a le viole.

Né fiore è in terra, in mar pescie, in ciel stella,
Né in tutto quel che 'l mondo immenso cingie
È cosa che non senta del mio ardore;

E questa creatura umana e bella
No il sente lei, o non sentir s'infingie:
Sola no il sente, e tu il consenti, Amore?


CXXX.

Se passati a quel ponte, alme gientile,
Che in bianco marmo varca la rivera,
Fiorir vedreti eternamente aprile,
E un aura sospirar dolcie e ligera.

Ben vi scorgo sin or che v'è una fiera
Che abatte e lega ogni pensier virile,
E qualunque alma è piú superba e altera,
Pressa la libertà, ritorna umile.

Ite, s'el v'è im piacer, là dove odeti
Cantar li augéi ne l'aria piú serena
Tra ombrosi mirti e pini e fagi e abeti.

Ite là voi, che io son fugito a pena;
Libero non: ché pur, come vedeti,
Porto con meco ancora la catena.


CXXXI.

Come puote esser che da quella giaza
Venga la fiama che me incende il core?
Come puote esser che cotanto ardore
Non struga il gielo e il corpo mio disfaza?

Voglian noi creder che natura faza
Da tanto fredo uscir tanto calore?
On ver che la possanza sii d'Amore
Che l'amplo mondo e la natura abbraza?

D'Amor procede, che forzò natura
A far quel monstro de atomi diversi,
Che il cor ha giaza e li ochij foco ardente.

Li ochij di foco e il cor di giaza dura
Fié concrear Amor, per piú potersi
Mostrar excelso intra le umane gente.


CXXXII.

Novo diletto a ragionar me invita
De quello ardor che piú se fa vivace,
E la mia vita dolcemente ariva.
Ma, nanti che da me facia partita
L'alma, che a poco a poco se disface,
Nanti che al tutto de spirar sia priva,
Hagia il cor lasso tanta tregua o pace
Da il dolcie fiamegiar che sí lo impiglia,
Che mostrar possa altrui per maraviglia
Quanto a se stesso nel suo fin compiace;
Perché, come sovente se asumiglia
A ogni animal che di suo voler more,
Cosí contento è lui morir de amore.

Novo piacere e disusata voglia
Che il cor mio prende de il suo dolcie male
Nel viso altiero e de mercè ribello,
Cosí par che non senta morte o doglia
Tra gli Indi piú deserti uno animale,
Che un corno ha in fronte, e tien nome da quello.
Forcia né inzegno a sua presa non vale,
Fuor che dal grembo virginile acolto,
Ove ogni ardir, ogni poter gli è tolto,
E lui si sta, né di morir gli 'n cale.
Et io, per cagion, me sono avolto
In tanto lieta e dilettosa sorte
Che partir non me scio da la mia morte.

Dove la forcia piú del Sol se aduna,
Sotto il cerchio piú largo al nostro polo,
Ne la terra odoriffera e felice,
Vive uno augello, in quella gente bruna,
Che sempre al mondo se ritrova solo
Sancia altro paro: et ha nome fenice.
Quando da li anni sente tardo il volo,
Cinamo, incenso, cassia e mira prende,
E bate l'ale sí che il Sol lo 'ncende;
Arde se stesso, e manca sancia dolo.
Cosí la fiamma mia lieto mi rende,
E dami foco tanto dilettoso
Che arder mi sento e di partir non oso.

Sotto la tramontana al breve giorno,
Ove l'onda marina in giel se indura,
Un picolo animal, tra' monti, nascie,
Bianco di pelo, e di facione adorno
E sí nemico al tutto di lordura
Che sol di neve candida si pascie.
Tanto gentile il fece la natura
Che se, forsi cacciato, il luto vede,
Sostien da quello il delicato pede,
E piú belleza che la vita cura.
Ben fa maravigliar; ma chi no il crede
Venga a veder un uom che muor tra nui,
Non per la sua beltà, ma per l'altrui.

Canta uno augello in voce sí suave,
Ove Meandro il vado obliquo agira,
Che la sua morte prende con diletto.
Lassar le usate ripe non gli è grave;
Ma con dolcie armonía l'anima spira,
Né voce cangia al fin, né muta aspetto.
L'unda de il fiume il novo canto ammira,
E lui, fra l'erbe fresche a la rivera,
Perché nel suo zoir doglia non spera,
Segue cantando ove natura il tira.
Cosí me tragge questa bella fiera
A voluntaria morte e dolcie tanto,
Che per lei moro, e pur morendo, canto.

Dunque tra li animali il quinto sono
Che a morte de mia voglia me destino;
Ma siano Amore, e quel viso divino
Che ora me occide, e il Sol che io abandono,
Sian testimoni al spirto peregrino,
Che altro remedio al suo lungo martire
Trovar non puote, che, amando, morire.


CXXXIII.

Or che sotto il leon piú boglie il celo,
Aridi i fiumi e rasciuta è ogni vena,
L'umor ne l'erbe se mantien a pena,
Sanza neve son l'alpe e sanza gelo.

Et io di piú fervor il cor me invelo,
Che già mi dete, ascoso, occulta pena;
Or l'ho scoperto per fiaccata lena
E pòrtol ne la fronte sanza velo.

Adesso che il ciel arde e il mondo avampa,
Sotto il Sol vado, torrido e affanato
Dove alta voglia e gran desir me chiama.

Felice chi da' laci d'Amor campa,
Ma felice vie piú, vie piú beato
Chi amato è parimente quanto egli ama!


CXXXIV.

Il Sol pur va veloce, se ben guardo,
E il tempo che se aspetta mai non vene;
Ben par che il gran desir nanti me mene,
Ma il corpo resta adietro ignavo e tardo.

Il Sol di fuor me scalda, et io dentro ardo;
Il mio cor falso m'ha lasciato in pene:
Esso è veloce e nulla cosa il tene,
Ma passa avanti piú legier che pardo.

Egli è davante già del suo bel lume,
Dove Amor lo rinfresca a la dolcie ombra,
E tienlo ascoso sotto a le sue piume;

Et io pur mo son gionto a picol fiume
Che rotto ha il varco e il mio passar ingombra,
Acciò che lunga indugia me consume.


CXXXV.

Qual sopra Garamante on sopra Gange
Se aduce il cervo paventoso e stanco,
Batendo per lo affanno il sciuto fianco,
Quando fatica e caldo inseme lo ange;

Come l'onda corrente in prima tange
Il spirto anello, il gran desir vien manco,
E il sangue torna sbigotito e bianco
Per la fredura, che il fervor afrange.

Tal il mio cor, che di gran sete avampa,
Nel suo bel fonte disiando more,
E piglia oltre al poter l'ampla dolceza;

Però che nel mirar questa vagheza
Ha giunto tanto foco al primo ardore,
Che maraviglia n'ho se quindi campa.


CXXXVI.

Tu te ne vai, e teco vene Amore,
E teco la mia vita e ogni mio bene;
Et io soletto resto in tante pene,
Soleto, sancia spirto e sancia core.

Debbio forsi soffrir questo dolore
Ch'io non venga con teco? E chi me tene?
Ahi, lasso me! che con tante catene
Me legò sempre e lega il nostro onore.

Oh, se io credesse pur che alcuna volta
Di me te sovenisse, anima mia,
Quanto minor sarebbe il mio martire!

Ma, quando io penso che me sarai tolta
Oggi, e sí presso è la partita ria,
Campar non posso, o di dolor morire.


CXXXVII.

Colui che il giorno porta è già ne l'onde,
On forsi oltre a Moroco splende ancora,
E fammi sovenir sempre quest'ora
De l'altro Sol che crudeltà me asconde.

Donde procede il mio sperar, e donde
Procede quel desir che me inamora,
Se la fortuna mia pur vòl che io mora,
E tolto me è quel ben che me confonde?

Speranza vien dal Ciel, e il gran desire
Vien da i begli ochij e da le chiome d'oro,
Et ambi dal pensier che perir vòle.

Ora vegiendo il giorno dipartire,
Con lo emispero nostro me scoloro,
Poi che m'è tolto l'uno e l'altro Sole.


CXXXVIII.

Ligiadro veroncello, ove è colei
Che de sua luce aluminar te sòle?
Ben vedo che il tuo damno a te non dole;
Ma quanto meco lamentar te dêi!

Ché, sanza sua vagheza, nulla sei;
Deserti e fiori e seche le viole:
Al veder nostro il giorno non ha sole,
La notte non ha stelle senza lei.

Pur me rimembra che io te vidi adorno,
Tra' bianchi marmi e il colorito fiore,
De una fiorita e candida persona.

A' toi balconi allor se stava Amore,
Che or te soletto e misero abandona,
Perché a quella gentil dimora intorno.


CXXXIX.

Io sento ancor nel spirto il dolcie tono
De l'angelica voce, e le parole
Formate dentro al cor ancor mi sono.

Questo, fra tanta zoglia, sol mi dole,
Che tolto m'ha fortuna il riuderle.
Quando vedrò piú mai nel dolcie dire
Da quelle rose discoprir le perle?
Quando vedrò piú mai lo avorio e lo ostro
Nel suave silenzio ricoprire
Ligiadre parolete? Il tacer vostro
Contro a mia voglia a lamentar me invita.
Ancor sarà ch'io senta il gentil sòno,
E questa spene sol me tene in vita,
Per questa il mondo ancor non abandono.


CXL.

Nel mar Tyreno, en contro a la Gorgona,
Dove il bel fiume de Arno apre le foce,
Uno aspro scoglio ha il nome che me coce,
E che me agela e che me afrena e sprona.

A la cima superba il vento intona,
E l'onda intorno il bate in trista voce;
Ma lui si sta sicuro, e non gli noce
Il vento altiero e il mar che il circumsona.

Questo altro scoglio mio tanto è piú duro
Quanto è piú bello, e tanta è sua belleza
Quanta Natura ne puô dare e Jove.

Lui dal vento de Amor se sta sicuro,
E l'onde sue focose in tutto speza;
Speza sua forza, che puó tanto altrove.


CXLI.

Questa legiadra e fugitiva fera,
Per la cui vista ne le selve io moro,
Ha candida la pele e chiome d'oro,
Vista caprina, mobile e legiera.

De un corno armata è la sua fronte altera,
Che, ognor che al cor mi rede, me scoloro;
E l'ochij soi quali nell'alto coro
Splendono e ragi de la terza spera.

Lei sdegna in tutto ogni conspetto umano,
E ne li alti deserti sta solinga,
Sí, che a' nostri ochij è tropo rara in vista.

E pur la segue ancor il desir vano,
E nel seguirla se stesso alosinga,
Dicendo: Il tempo al fine il tutto aquista.


CXLII.

-- Fior scoloriti e palide viole,
Che sí suavemente il vento move,
Vostra madona dove è gita? e dove
È gito il Sol che aluminar vi sòle? --

-- Nostra madona se ne gí co 'l sole
Che ognor ce apriva di belleze nove;
E, poi che tanto bene è gito altrove,
Mostramo aperto quanto ce ne dole. --

-- Fior sfortunati e viole infelice,
Abandonati dal divino ardore
Che vi infondeva vista sí serena! --

-- Tu dici il vero: e nui ne le radici
Sentiamo il damno; e tu senti nel core
La perdita che nosco al fin te mena. --


CXLIII.

Sperando, amando, in un sol giorno ariva
La nostra etade a l'ultima vechieza;
Quella speranza, che sí ben fioriva,
Come caduta è mo di tanta alteza!

Come fa mal colei che me ne priva:
Ché il nostro amore e l'alta sua belleza
Farebbe odire in voce tanto viva,
Che si apririan le pietre per dolceza.

Sperai con tal desir, e fui sí presso
Al fin del mio sperar, che io vò morire,
Pensando ora che fui, che sono adesso.

Copri dentro dolor, non mi far dire;
Ma pur questo dirò: non venga spesso
Sí bella pressa a chi non scia tenire.


CXLIV.

Io son tornato a la mia vita antica,
A piagner notte e giorno, a sospirare,
Dove già non credea piú ritornare,
Ché pur sperava alfin pietade amica.

Ahi lasso! che io non scio quel che io me dica,
Tanto mia doglia me fa vanegiare;
Non spero, e non potei già mai sperare
In questa fera di mercié nemica.

Ben fu tradito il misero mio core,
Che un poco il viso li monstrò ventura,
Perché sua doglia poi fosse magiore.

Sempre la bianca sorte con la scura,
Di tempo in tempo va cangiando Amore:
Ma l'una poco, e l'altra molto dura.


CXLV.

Nel doloroso cor dolcie rivene
La rimembranza del tempo felice,
Quando mia sorte piú mi tenne in cima.
Quella antica memoria ancor elice
Li usati accenti, e la voce mantene
Al suave cantar come di prima.
Ligiadri versi e grazïosa rima,
Che usar solea nel mio novello amore,
A che mo trarvi fore,
Se da quella crudiel non son udito?
Cosí cantando aquetaremo il core,
Che tacito non trova alcuna pace;
Il cor, che se disface
Pensando a quel piacer dove è partito.
Ahi lasso! ove è fugito,
Ove enne il tempo fugitivo andato
Nel qual sopra ogni amante fui beato?

Era in quella stagion il ciel depinto
Nel clima occidental di quelle stelle
Che del pigro animal il fanno adorno,
Per che di chiare e splendide fiamelle
Nel liquido sereno avea distinto
La fronte al Tauro e tutto dextro corno.
Girava il sole al cerchio equale intorno,
E da l'artica parte e da l'australe
L'uno e l'altro animale
Che lo amoroso Jove in piume ascose;
Quel che cantando sotto a le bianche ale
A la fresca rivera Leda accolse,
E quel che de Ida tolse
Il biondo Ganymede e in celo il pose.
Or stelle aspre e nojose
De lo augue e del delfin disperse in celo
Stringon la terra e l'onde in tristo zielo.

Era la terra verde, e colorita
Di celeste color, di color d'oro,
Di perso e flavo, e candido e vermiglio.
Apría natura ogni suo bel lavoro:
La palida viola era fiorita,
E la sanguigna rosa e il bianco ziglio.
Li amorosi augelleti el lor concilio
Facían cantando in sí dolcie concento,
Che potean far contento
Qualunque piú di noglia il cor se grava.
Ogni arbosel di nova veste incento,
O fronde o fiori in quella stagion have;
E l'aura piú suave
Tra le verde fogliette sospirava.
Et or la stagion prava
Li arbori e l'erbe di belleza spoglia,
E i fiumi de unda, e me colma di doglia.

Piovea da tutti e cieli Amore in terra,
E ralegrava l'anime gentili
Spirando in ogni parte dolcie foco;
E i giovanetti arditi e i cor virili,
Sanza alcun sdegno e sanza alcuna guerra
Armegiar si vedean per ogni loco;
Le donne in festa, in alegreza, in gioco,
In danze perregrine, in dolci canti;
Per tutto leti amanti,
Zente lezadre, e festegiar giocondo.
Non sarà piú (che io creda) e non fu avanti
Fiorita tanto questa alma cittade,
Di onor e di beltade
E di tanto piacer guarnita a tondo.
Bandite or son dal mondo,
Non pur da noi, bontade e cortesia,
In questa etade dispetosa e ría.

Colei, che allor mi prese et or mi scaccia,
Che il spirto mio manten da me diviso
Tal che di vita privo incendo et ardo,
Mi se mostrò con sí benegno viso,
Che ancor par che membrando me disfaccia
L'atto suave di quel dolcie guardo.
Girava il viso vergognoso e tardo
Vèr me talor di foco in vista accesa,
Come fosse discesa
Pietà dal cielo a farla di sua schiera.
Indi fu l'alma simpliceta apresa,
Il senso venenato, il cor traffitto
Da li ochij, ove era scritto: --
Fole è chi ajuto d'altra donna spera. --
Or piú non è quel ch'era;
Ma spietata, sdegnosa, altera e dura
Stassi superba, e del mio mal non cura.

Canzon, da primavera
Cangiata è la stagione e il mio zoire
In nubiloso verno e in rio martire.


CXLVI.

A che te me nascondi, e vòi che io mora,
Crudiele? E che farai poi ch'io sia morto?
Che farai poi, crudiel, se occidi a torto
Un che te ama cotanto, e che te adora?

Io sarò di tormento e pena fuora,
Da poi che mia fortuna vòl tal porto;
Or sia cosí: che pur me riconforto,
Se tanto mal se sgombra a l'ultima ora.

Non voglio vita, non, sancia tua pace,
Né cosa volsi mai con tuo dispetto:
E cosí me morò, se pur ti piace.

Ma tu dimi in tua fede: E che diletto,
Che zoglia hai de un meschin che se disface
Per star bandito dal tuo dolcie aspetto?


CXLVII.

Ben fu mal'ora e maledetto punto,
Disventurata festa e infausto gioco,
Tempo infelice e sfortunato loco
Dove e quando ad amar prima fui giunto.

Da indi ogni piacer mi fu disgiunto,
Ardo nel giazo, e giazo in mezo al foco,
E in doglia mi consuma a poco a poco
Il venenoso stral che il cor m'ha punto.

Ahi dispietate stelle e crudel celo!
Se da voi forsi vien nostro destino,
E vostra forza noi qua giú governa,

Tante volte cangiasti il caldo al gelo,
La rosa al pruno; et io, sempre meschino,
Mai non fui scoso da la doglia eterna.


CXLVIII.

Solea cantar nei mei versi di prima
Quel crespo lacio d'or che il cor mi prese,
E quel guardo suave che me incese
Già da le piante extreme a l'alta cima.

Or tema e spene in combatuta rima
De amore e de dureza fan contese,
E son le sue ragion sí adentro intese,
Che per se stesso il cor se rode e lima.

Fermo è de amar colei che Amor disvía,
E cosí a mal suo grado vol seguire
Con nuovi passi per l'antiqua via.

Forsi tacendo ancor farò sentire
Che io son mutato e son quel che io solía,
A la mia vita che mi fa morire.


CXLIX.
 
[ RINE(RO) GUALANDO ]

Letto ho, Rinieri, il tuo pianto suave,
Che vivo vivo par che arda e sospiri;
Misero me, con quanta arte me tiri
A ramentarmi del mio stato grave!

O del mio cor serrato unica chiave,
Che a mio diletto tanto me martíri,
Perché non sei presente? e ché non miri
Come un'alma gentil dolcie se agrave?

Acciò che quello altero e crudo core
Che a sí gran torto mia mercié mi niega,
Odendo tal pietà, se fèsse umano.

Rinier mio dolce, ben fu tieco Amore:
Anzi è ancor tieco, e le tue rime spiega,
E scrive e versi toi con la sua mano.


CL.

Non credeti riposo aver già mai,
Spirti infelici, che seguíti Amore;
Ché morte non vi dà quel rio signore,
Ma pena piú che morte grave assai.

Odito aveva, e poi istesso il provai,
Che non occide l'omo il gran dolore;
Se l'occidesse, io già di vita fore
Sarebbe, onde mi trovo in pianti e in guai.

Né sua alegreza ancora al fin vi mena:
Ché fuge come nymbo avanti al vento,
E in tanta fuga si cognoscie a pena.

Cosí, fra breve zoglia e lungo stento,
E fra mille ore fosce e una serena,
Amante in terra mai non fia contento.


CLI.
 
[ DIALOGUS CANTU ISDEM DESINENTIIS
RESPONDENTE VERSIBUS RITHMIS CONVERSIS ]


-- Chi te contrista ne la età fiorita,
O misero mio core?
Dove è quel dolcie ardore?
E la assueta zoglia ove è fugita?
Come è succisa rosa e còlto fiore,
È languida toa vita;
Quella beltà, che te arse dentro e fore,
Come è da te bandita? --
-- Cosí m'ha cuncio Amore;
E la speranza al gran desir fallita
Ha di tal foco incensa mia ferita,
Che ogni pena è minore;
Ma, nanti che partita
Facia da te con tanto mio dolore,
Per mia voce fia odita
La crudiel tyramnía di quel signore. --

-- Forsi per altrui colpa il tuo disdegno
A lamentar te tira;
E forsi oltraggio et ira
Te fan nemico a l'amoroso regno;
Ma, se ben dritto il tuo judicio amira,
Amore è in sé benegno,
E con virtute sempre a l'alma aspira
Bontade e pensier degno. --
-- Deh, se ciò credi, agira
Li ochij al mio stato, che de Amore è un segno,
E potrai divisar nel mio contegno
Se 'l tuo pensier delira.
Vedi il signor malegno
Quanto lontano al ciel or me ritira!
Onde io di duol son pregno,
Mirando quanto indarno se sospira. --

-- Non sei tu per Amor quel che tu sei,
Se in te vien legiadría,
Se onor e cortesía?
Ah, pensa pria se lamentar te dêi!
Lamentar di colui che l'armonía
Infonde a i vagi occei!
Che infonde a' tygri umana mente e pia,
E fa li omini Dei! --
-- Non son quel che io solía;
Ma son ben stato, piú che io non vorei,
Suggeto a quel crudiel et a colei
Che la mia fede oblía.
Mai non puote' per lei
Aver riposo ne la vita mia;
E cosí me disfei
Con spene incerta, e certa gelosía. --

-- Se quella che de amor prima te incese,
A te forsi non rede
Quella usata mercede
Che al tuo disir già per bon tempo rese,
Perché da l'altre il tuo voler recede
Se una sola te offese?
Né per unico exemplo se concede
Che tutte sien scortese. --
-- Crede a me, dico, crede,
Che il mar levato e l'alpe fien distese,
La terra ignota e il ciel ne fia palese,
Quando in donna fia fede.
Se questa che mi prese,
Ch'è il fior di quelle che il ciel nostro vede,
Suo detto non atese,
Che faran l'altre che li son soppede? --

-- Or questo adunque è quel che te sospende?
Questo geloso vento
L'usato foco ha spento:
Se spento se può dir quel che t'incende?
O che nel duol vanegi, o l'argumento
Per me ben non se intende;
Ché, se da lei sei libero e discento,
Amor de che te offende? --
-- Vie piú crescie il tormento,
Quando altri meco del mio mal contende;
E lui, che quel non sente, me riprende
Se a ragion me lamento.
Dal collo ancor mi pende
Gran parte di quel lacio onde era avento,
E sí ne i pié discende,
Che al dipartir de Amor son grave e lento. --

Canzone, il cor, già guasto
Da lo amoroso foco, ancor fa guerra
A quel che regna in celo e regna in terra
E regna nel mare vasto.
E l'alma pur se afferra
Già per antica usanza a far contrasto;
E tal ragion disserra,
Che io per me stesso a judicar non basto.


CLII.

Ecco la pastorella mena al piano
La bianca torma ch'è sotto sua guarda,
Vegendo il Sol calare, e l'ora tarda,
E fumar l'alte ville di luntano.

Erto se leva lo arratore insano,
E il giorno fugitivo intorno guarda,
E scioglie il jugo a' bovi, che non tarda
Per gire al suo riposo a mano a mano.

Et io soletto, sanza alcun sogiorno,
De' mei pensier co' il Sol sosta non have,
E con le stelle a sospirar ritorno.

Dolcie affanno d'amor, quanto êi suave:
Ché io non poso la notte e non al giorno,
E la fatica eterna non me è grave.


CLIII.
 
[ CRUCIATUS ]

Né il sol, che ce raporta il novo giorno,
Che sí jocundo in vista or se è levato;
Né di la luna l'uno e l'altro corno
Che ancora splende in mezo al ciel stellato;

Né l'unda chiara a questo prato intorno,
Né questa erbeta sopra al verde prato,
Né questo arbor gentil di fiori adorno
Che intorno ha scritto il nome tanto amato;

Né quel bel augelleto e vago tanto,
Che meco giorna a la fiorita spina,
E i mei lamenti adegua co' il suo canto;

Né il dolcie vento e l'aura matutina,
Che sí suave me rasuga il pianto,
Me dan conforto in tanta mia roina.


CLIV.

Il terzo libro è già di mei sospiri,
E il sole e l'anno ancor non è il secondo:
Tanto di pianti e di lamenti abondo,
Che il tempo han trapassato e mei martiri.

Insensato voler, dove mi tiri
A lamentar del mio stato giocondo?
Qual piú diletto me paregia al mondo,
Se avien che gli ochij nel bel viso agiri?

Ben muta ancor dureza questa voglia,
A cui non basta che una volta pera,
Ma vòl che io consumi in foco e in zielo.

Qual fia quella pietà che mi disoglia
E doni l'ale a l'anima ligera,
Che quindi si sveluppi e voli al celo?


CLV.
 
[ CHORUS SIMPLEX CANTU TETRASTICO ]

Tornato è meco Amore,
Anci vi è sempre e mai non se partío;
Ma il mio dolcie disío
Per sua nova pietà fatto è magiore.

Chi segue e dura un tempo, vince al fine;
Non è cor sí feroce,
Che amando e lamentando non se piegi.
Sparsi ho tanti sospiri e tante voce,
E sparsi ho tanti priegi,
Che mitigate ho mie pene meschine;
E le luci divine
Lassan l'orgoglio dispetoso e rio,
E con sembiante pio
Rendon speranza al mio timido core.


CLVI.

Ben dissi io già piú volte, e dissi il vero,
Che una suave e angelica figura
Esser non puote dispietata e dura,
Né viso umano asegna core altero.

Mai puote dimostrare un ben intero
Sanza summa beltade la Natura;
E, chi forsi no 'l crede, ponga cura
A quella diva in cui sperava e spero.

Ché la dolcie aparenza e il dolcie guardo
Sua dolcie voglia non lasciò mentire,
Se ben già dimostrò quel che non era.

Essa m'ha tratto adesso del morire;
Ché, se creata il Ciel l'avesse altera,
Ogni altro ajuto al mio scampo era tardo.


CLVII.

Il cielo et io cangiato abbiàn sembianti:
Io tutto leto e lui di nymbi pieno,
Dove io fui tristo e lui tutto sereno,
Lacrima or esso et io lassiato ho i pianti.

Quel vivo Sol che se ascondea davanti,
Fatto ha la luce a l'altro venir meno;
I vagi lumi del celeste seno
Son nel bel viso accolti tutti quanti.

E l'altro Sol vedemo, invidïoso
De' capei d'oro e del vermiglio volto,
Mostrassi in vista scuro e nubiloso.

E, poi che al tristo paragon fu còlto,
Piú non se mostra e tien il viso ascoso,
Però ch'il pregio di beltà gli è tolto.


CLVIII.

Né viso verginil de zigli ornato,
Né fresche rose a bei crin de auro intorno,
Né tronco vedrò mai de edere adorno,
Né de viole e fiori adorno un prato:

Ch'io non abbia ne l'alma e in cor segnato
Ciò che già mi monstrava un lieto giorno;
Di lui cantando a ragionar ritorno,
(Dolcie memoria!) e il tempo bene andato.

Le rose mi son foco, e zigli un giazo,
E l'edere sí forte m'hanno avento,
Ch'io non fia sciolto mai dal suo bel lazo.

Cosí, de fiori e de viole cento,
A mio diletto mi consumo e sfazo,
E voglio in tal pensier morir contento.


CLIX.
 
[ CUM RO(MAM) FORET EUNDUM ]

Chi piangnerà con teco il tuo dolore,
Amante sventurato, e le tue pene,
Poi che lasciar t'è forza ogni tuo bene,
(Dispietata fortuna!) e il tuo signore?

Partir conventi, e qui lasciare il core;
Lasciare il core, e partir te convene!
Miser chi signoría de altrui sostene,
Ma piú chi serve altrui servendo amore!

Ahi me dolente! ahimé, de che ragiono!
Pur scio che certo me convien partire;
E la vita crudiel non abandono?

Ben credo a quel che ho già sentito dire,
Et a mio grave costo certo sono,
Che doglia immensa non ce fa morire.


CLX.
 
[ CHORUS SIMPLEX RITHMO INTERCISO ]

Io me vo piangnendo,
E pàrtomi da te contro mia voglia,
Con tanta doglia--che al mondo contendo.

Come viver potrò da te lontano
Gientil mio viso umano,
Che solo eri cagion de la mia vita?
Or sbigotita--a te se aresta in mano.
Ceco rimansi; e l'alma, che n'è gita,
Il cor dolente invita
A starsi teco; onde io son fatto insano,
Cercando invano,--e non trovando, aita.
Ma, se non è partita
Pietà da te, piú come esser si soglia,
Ancor gran zoglia--al mio ritorno attendo.


CLXI.

-- Qual anima divina o cor presago
Ridir mi può che fa la luce mia? --
-- Stassi soletta e, con malinconia
Piangnendo, ha fatto de' begli ochij un lago. --

-- Quel viso adunque, e la puerile imago,
Misero me! piú mai qual fu non fia? --
-- Non dir cosí; ché qualle esser solía
Farasse al tuo ritorno, e ancor piú vago. --

-- Viso gientil, che ne gli ochij mi stai!
Ne li ochij, ne la mente e in mezo il core,
Quando serà che io te rivegia mai?

Temo, né sanza causa è il mio timore:
Che, per cagione e per ragione assai,
In terra è mal sicuro un sí bel fiore. --


CLXII.

De' leti giorni e del tempo migliore,
Doppo la dura e cruda dipartanza,
Sol di tanto mio ben questo me avanza,
Che de dolcie penser notrisco il core.

E meco nel camin se viene Amore,
Ragionando di fede e di leanza;
Fugio la tema e prendo la speranza,
E me contento del mio stesso errore.

Cosí davanti a me la mi confingo
Che de essermi lontana si sospira,
E del mio mal pietosa se condole.

Ben vede l'alma mia ch'io la losingo
In vanitade, e meco se ne adira,
Né in cosa falsa dilettar se vòle.


CLXIII.

Da' piú belli ochij e dal piú dolcie riso,
Da la piú dolcie vista e meno oscura
Che in terra dimostrasse mai Natura,
Né imaginasse altrui nel paradiso;

Da' crin che mostràr d'auro, e da un tal viso
Che rose se monstrava e neve pura,
Da una celeste e angelica figura
Che avrebbe un tronco, un marmo, un fer' conquiso,

Partir, lasso me!, puote'? Et ancor vivo
Sanza quelle parole e quella voce
Che me fèr già di sé don sí giolivo!

Ahi, come alto diletto spesso noce!
Ché, se per caso averso om ne vien privo,
Quanto il damno è magior, tanto piú coce.


CLXIV.

Mentre che io parlo e penso, il tempo passa
E fassi antiquo nel mio petto amore;
Anci se aviva il tramortito ardore,
E se rinova, e me piú vechio lassa.

L'alma mia, del suo ben privata e cassa,
Poi che è partita a forza del suo core,
Conta e giorni passati e conta l'ore,
E per longo dolor la facia abassa.

Longo dolor, che fai de l'ora uno anno,
Del giorno fai piú lustri e tempo eterno,
Come hai de la mia etade il fior batuto?

Acciò che io riconosca con mio damno,
Che non sol lunga state e lungo verno,
Ma lunga doglia può far l'om canuto.


CLXV.
 
[ CRUCIATUS ]

Dolce sostegno de la vita mia,
Che sí lontana ancora me conforti,
E quel, che il mio cor lasso piú disía,
Nel dolce sogno dolciemente aporti,

Deh qual tanta pietade a me te invía,
Qual celeste bontà tuo' passi ha scòrti?
Ché, per tua vista, l'alma, che moría,
Ratene e spirti sbigotiti e morti.

Non mi lassar, o sogno fugitivo;
Ché io me contento de inganar me stesso
Godendomi quel ben de che io son privo.

E, se piú meco star non pòi adesso,
Sembianza di colei che me tien vivo,
Ritorna almanco a rivedermi spesso.


CLXVI.

Quanta aria me diparte dal bel volto
Che mai non fia partito dal mio core!
Quanti giorni son già quante son l'ore
Che io fui dal gentil viso a forza tolto?

Quante volte, la facia e il pensier vòlto
Dove lasciai tra l'erbe il mio bel fiore,
Quante volte se cangia il mio colore
Temendo che d'altrui non sia ricolto?

Quanti monti son già, quante alpe e fiumi,
Che vargan questi membri afflitti e stanchi,
Lassando il spirto fugitivo a detro?

Quando fia adunque mai che il mio duol manchi?
Qual doglia sarà piú che mi consumi,
Se in tanta pena morte non impetro?


CLXVII.

Io vidi quel bel viso impalidire
Per la crudiel partita, come sòle
Da sera on da matina avanti al sole
La luce un nuvoletto ricoprire.

Vidi il color di rose rivenire
De bianchi zigli e palide viole;
E vidi, e quel veder mi giova e dole,
Cristallo e perle da quelli occhij uscire.

Dolcie parole e dolcie lacrimare,
Che dolciemente me adolcite il core,
E di dolciezza il fati lamentare,

Con voi piangnendo sospirava Amore
Tanto suave, che nel rammentare
Non mi par doglia ancora il mio dolore.


CLXVIII.
 
[ CANTUS TRIMETER ]

Apri le candide ale, e vieni in terra
A piagner meco, Amore,
Che nel mio sommo ben meco cantavi.
Non può, sanza tua aita, aprire il core
Sue pene tanto gravi;
Ché un tropo alto dolor la voce serra.
Ben ho da lamentarmi in tanta guerra
Che il Ciel me face a torto
E la sventura mia,
Tenendomi lontano al mio conforto.
Perduto ho lei di cui viver solía,
E non me occide la fortuna ría?

Da poi che me partío da quel bel volto,
Non ebbi ora serena,
Né spero aver piú mai, se io non ritorno.
Sempre in sospiri, lamentando, in pena
Mi sto la notte e il giorno,
Né altro che pena nel mio petto ascolto.
Fiorito viso mio, chi te m'ha tolto?
Chi m'ha da te partito,
Perché, vivendo, io mora?
Come om di venenato stral ferito,
Che de morire aspetti de ora in ora,
Vie piú che morte lo aspettar lo accora.

Io mi credea con tempo e con fatica
Spiccar dal cor insano
Il gran dolor che io presi al dipartire.
Or vedo quel sperar falace e vano;
Ché io non posso fugire
Il dol che meco vene e il cor me intrica.
Lui per l'alpe deserte se nutrica
Del mio crudiel affanno,
Né per tempo se abassa;
Ché, se me stesso forsi non inganno,
Oggi compitamente il mese passa
Che io me partivo, e il mio dol non mi lassa.

Non mi lassa il dolor, ma piú se accende
Qualor piú se alontana
A la cagion che, rimembrando il move.
Che or de' begli ochij, or de la facia umana,
Or d'altre viste nove
Il dolce imaginar spesso me offende;
E l'alma adolorata non intende
Quanto il pensier suave
Che seco è in ogni loco
Facia la pena piú molesta e grave;
Come l'unda la febre aquetta un poco,
E in picol tempo rende magior foco.

Ma, se io dovesse ben morir, pensando
Di voi, donna gientile,
Non fia che tal pensier mi traga mai.
Ben fora d'alma timideta e vile,
Se la vita con guai
Cercasse, e dolcie morte avesse in bando.
Di voi non pensaragio allora quando
Serò sotterra in polve;
Né vi porrò in oblío
Se un'altra morte l'anima non solve;
Ma, se disolta puote aver disío,
Eterno fia con vosco il pensier mio.

Felice mia canzon! tu che gir pòi
Là, dove il Ciel mi vieta,
Al mio paese divo,
Quanto gir debi grazïosa e lieta!
Vanne, dicendo: -- Io lasciai un che è privo
D'ogni suo spirto, e sospirando è vivo. --


CLXIX.
 
[ IN PROSPECTU ROMAE ]

Ecco l'alma città che fu regina
De l'unde Caspe a la terra Sabéa;
La triomfal città che impero avea
Dove il Sol se alza insin là dove inchina.

Or levo fato e sententia divina
Sí l'han mutata a quel ch'esser solea,
Che, dove quasi al ciel equal surgea,
Sua grande alteza copre ogni ruina.

Quanto fia adunque piú cosa terrena
Stabile e ferma? poi che tanta altura
Il tempo e la fortuna a terra mena.

Come posso io sperar già mai sicura
La mia promessa? Ché io non credo a pena
Che un giorno intiero amore in donna dura.


CLXX.
 
[ EX URBE AD DOMINAM ]

Sapi, unico mio ben, che ancora io vivo,
E maraviglia del mio viver prendo;
Ché, secondo natura, io non intendo
Come io mi campi di mia vita privo.

Ogni cosa mortal sempre ebbi a scivo,
Fuor che te sola, da cui vivo e pendo;
Or tu me èi tolta: ed io co 'l Ciel contendo,
Ché sanza spirto a morte non arivo.

Io vivo pur ancor; ma in tanta pena
Meno la trista vita e in tanti guai,
Che di portar me stesso non ho lena.

Sí son mutato a quel che me mostrai,
Che, se forse ventura a te mi mena,
A gran fatica me cognoscerai.


CLXXI.

Batista mio gentil, se tempo o loco
Me potesser cangiar da quel che io era,
Forsi che e laci de la bella fera
Roma avria scossi o ralentati un poco.

Ma né festa regal, né molto joco,
Né del mio Duca la benegna cera,
Né in tanti giorni questa terra altera,
M'hanno ancor tratto de l'usato foco.

Cosí luntano ancor me avampa il core
La testa bionda e l'angelico viso,
Che avanti a gli ochij mi presenta amore.

Questi non sarà mai da me diviso
Mentre che io viva; e poi, di vita fore,
Meco me 'l portarò nel paradiso.


CLXXII.

Il Tempo, amor, fortuna e zelosía
Per sé ciascuno e insieme mi fan guerra:
L'ultima, piú crudiel, me chiude e serra
Ogni ritorno a la speranza mia.

Indi fortuna dispetosa e ria
Me tien tanto lontano a la mia terra;
E il dispietato amore il cor me afferra
Con piú furore assai che non solía.

Fra questo il tempo fuge; e de mia etade
Seco, fugendo, se ne porta il fiore
Disutilmente perso in vanitade.

Ciò che esser deve, ben presagie il core:
Però che al mondo fòr le volte rade
Che longa vita avesse un gran dolore.


CLXXIII.

Quanto fuòr dolcie l'ultime parole,
Misero me, che tenero il mio core,
Quando lassarlo a lei, che il trasse fore,
Tanto me dolse, che oggi ancor mi dole!

Ciò che se scrive, e ciò che dir si sòle
Suavemente a un dipartir de amore,
Sarebbe un rivo apposto al mar maggiore,
Una piccola stella appresso al sole.

Quei begli ochij eran fisi in tanto affecto,
Che sembrava indi una altra voce uscire
Dicente: Ora m'è tolto ogni dilecto.

Deh! perché allora non pote' io morire
Tanto contento in quello ultimo aspecto,
Ché dal quel viso al ciel potea salire?


CLXXIV.
 
[ CHORUS SIMPLEX ]

In quel fiorito e vago paradiso,
Là dove regna Amore,
Lasciai, piagnendo, a la mia donna il core;
E vivo pur ancor da lui diviso!

In un sol punto mi fu tolta allora
Ogni mia cara cosa e precïosa;
Restò la vita, ch'ebbi sempre a vile.
Doe cose fôr mia spene, e sono ancora:
Ercule l'una, il mio Signor zentile,
L'altra il bel volto ove anco il cor se posa.
E questa e quella a un tempo m'è nascosa,
Né me occide il dolore!
Che forsi tornería, di vita fore,
Al mio caro Signor et al bel viso.


CLXXV.

Ove son gitti e mei dolci pensieri
Che nel bon tempo me tenean giojoso?
Dove è la stella, dove è il sole ascoso,
Che me scorgeva a sí lieti sentieri?

Piacer mondani, instabili e legieri,
Folle è chi per voi crede aver riposo;
Réndene exemplo il mio stato amoroso
Tornato a casi dispietati e feri.

Ché cangiata ho mia zoglia in tanti mali,
E presa ho vita sí diversa e nova,
Che a pena quel ch'io fui d'esser consento.

A me credeti, miseri mortali,
Credete a me, che ne ho verace prova,
Che ogni vostro diletto è fumo al vento.


CLXXVI.
 
[ CRUCIATUS ]

Doe volte è già tornato il sole al segno
Che porta intro a le corna Amore acceso,
Poi che il mio cor, di libertade indegno,
Fu tra le rose dolcemente preso.

Né li veduti exempli, né lo inzegno
Che natura mi dede, m'han diffeso;
Anzi son stato a me tanto malegno,
Che gionto ho sempre carco al mio gran peso.

Or, che io non posso, on che poter non voglio,
Tento la fuga, e indarno me lamento,
E sto ne l'alto error pur come io soglio.

Qual fia la fine a sí lungo tormento?
Ché io cognosco il mio mal e no 'l disoglio,
Né solver lo potrò, se io non mi pento.


CLXXVII.

Il ciel veloce ne ragira intorno
E ménaci volando a morte oscura;
Misero, lasso! a che nostra natura
Leva a la fronte sí superbo il corno?

Ecco io, che mo surmonto al tempo adorno
E de mia etade tengo la verdura,
Ov'è la fede che me rassicura
Che la mia vita duri ancor un giorno?

E pur ne le terrene cose e frale,
Ove a mia voglia me stesso legai,
Ancor me affido debole e confuso.

Lèvame tu, mio Dio, da tanto male!
Rompe lo arbitrio che donato m'hai,
Poi che a mio damno per sciocheza lo uso.


CLXXVIII.

Spesso mi doglio e meco mi lamento
(Ché altri che me non ho che il mio mal pesi)
De' giorni che da amore ardendo spesi,
Che dovea piú per tempo essere ispento.

E quanto piú vi penso, piú mi pento:
Misero me! perché me stesso offesi?
Deh! perché prima ben non me diffesi
Da' laci, ove or me spicco lento lento?

Ché se il tardo pentir ben salva l'alma,
Il lungo star nel mal pur la tormenta
Ne la sua vita e ne la nostra ancora.

Quando porrò mai giù la grave salma?
Chi me assicura il tempo che io mi penta?
Ché io non scio la mia morte, il giorno o l'ora.


CLXXIX.
 
[ MORALIS ALEGORIA CANTU TETRAMETRO ]

Zefiro torna, che de amore aspira
Naturalmente desïoso instinto,
E la sua moglie co 'l viso dipinto
Piglia qualunque e soi bei fiori amira.
Ma chi riguarda il ciel che sopra agira
Non teme e laci de la falsa amante;
Ché la sua rete, che a morte ne tira,
Lo ochio sol prende cupido e vagante.
Ecco l'aria roseggia al Sol levante;
Driciamo il viso a la chiara lumera,
Ché la anima non pera.
Per volgier li ochij al loco de le piante.

Che riguardati, o spirti perregrini?
Il color vago de la bella rosa?...
Fugiti via, fugiti; ché nascosa
È la loncia crudiel ne' verdi spini.
Non aspettati che la luce inchini
Verso lo occaso: ché la fera allora
Escie sicura ne' campi vicini,
E li dormenti ne l'ombra divora.
Per Dio, non aspettati a l'ultim'ora!
Credeti a me che giacqui sopra al prato,
E, ben che io sia campato,
Mercié n'ha il Ciel, che vòl che io viva ancora.

Se ve colcâti ne' suavi odori
Che surgon quinci a la terra fiorita,
In brevi giorno avreti dolcie vita,
In lunga notte morte con dolori.
Uno angue ascoso sta tra l'erbe e' fiori,
Che il verde dosso al prato rassumiglia:
Nulla se vede, sí poco par fòri,
Né pria si sente, se non morde o piglia.
Forsi il mio dir torréti a maraviglia:
Ma salir vi convien quel col fronzuto,
Né si trova altro ajuto;
Chi provato ha ogni scermo, vi consiglia.

Quel dolcie mormorar de le chiare onde,
Ove Amor nudo a la ripa se posa
Là giuso ad immo, tien la morte ascosa;
Ché una syrena dentro vi nasconde.
Con li ochij arguti e con le chiome bionde,
Co 'l bianco petto e con l'adorno volto,
Canta sí dolcie, che il spirto confonde,
E poi lo occide che a dormir l'ha còlto.
Fugeti, mentre il senso non vi è tolto;
Ché il partir doppo il canto è grave affanno:
Et io, che scio lo inganno,
Quasi contro a mia voglia ancor l'ascolto.

Non vi spechiati a questa fonte il viso,
Ché morte occulta vi darà di piglio;
In quel fioreto candido e vermiglio,
Sol per mirarsi, se cangiò Narciso.
Legeti il verso a lettre d'oro inciso
Nel verde marmo di sua sepultura,
Che dice: -- Lasso, chi è di sé confiso!
Ché mortal cosa piccol tempo dura. --
Lassati adunque al basso ogni vil cura,
Driciati ad erto la animosa fronte;
Avanti aveti il monte
Che ne la cima tien vita secura.

Canzon, se alcun te legie e non intende
Dentro a la scorza, di' lui chiaro e piano,
Che in tutto è pazo e vano
Qualunque aver diletto in terra attende.


CLXXX.

Ne la proterva età lubrica e frale,
De amor cantava, anci piagnea piú spesso,
Per altrui sospirando; or per me stesso
Tardi sospiro e piango del mio male.

Re de le stelle, eterno ed immortale,
Soccorri me, che io son de colpe oppresso;
E cognosco il mio fallo, e a te il confesso:
Ma sancia tua mercié nulla mi vale.

L'alma, corrotta da' peccati e guasta,
Se è nel fangoso error versata tanto,
Che breve tempo a lei purgar non basta.

Signor, che la copristi de quel manto
Che a ritornar al ciel pugna e contrasta,
Tempra il judicio con pietade alquanto.


FINIS.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Le poesie volgari e latine di Matteo Maria Boiardo", riscontrate sui codici e su le prime stampe da Angelo Solerti, Romagnoli-Dall'Acqua, Bologna, 1894  ( Vedi )







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