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orlando matteo maria boiardo testo integrale brano completo citazione delle fonti commedie opere letterarie e in versi, operaomnia #
TIMONE
COMEDIA DEL MAGNIFICO CONTE
MATTIA MARIA BOIARDO
TIMONE COMEDIA DEL MAGNIFICO CONTE MATTEO MARIA BOJARDO CONTE DE SCANDIANO,
TRADUCTA DE UNO DIALOGO DE LUCIANO A COMPLACENZIA DE LO ILLUSTRISSIMO PRINCIPE SIGNORE ERCULE
ESTENSE DUCA DE FERRARA, EC.
PROLOGO.
Entra Timone nel proscenio: Luciano [è] volto a li Spectatori, dice li sequenti versi.
Io vengo a dimostrarvi, o spectatori,
Quel che non vide Roma tryonfante
Nel tempo antiquo de li imperatori,
Né tra soi regni e soe pompe cotante
Vantar si può di questa comedìa
Che or fia rapresentata a voi davante.
Io, qual foi greco, et abitai Soria,
E son detto per nome Luciano,
Usata ho sol sin qui la lingua mia;
Ma la benignità di quel Soprano
Qual quivi regna, per darvi diletto,
Di greco oggi mi fece italiano.
E me mandato ha nel vostro conspetto,
A ciò che in parte e brevemente dica
Di quanto fia trattato nel subietto.
Per voi lassata ho la mia setta antica,
Ché filosofo un tempo era tenuto,
Ben che foi de' filosofi la urtica;
Di novo son comedo divenuto
Per farvi cosa grata, e non mi pento:
Ché el dar piacere a molti è ben dovuto.
Or, se vi agrada, oditi lo argumento
Che più la cosa vi farà palese:
Silenzio alquanto e stia ciascuno attento.
Argumento.
Ececratide fu Colytiese,
Nato in Atene e di sangue gentile:
Ma gentileza ponto non apprese,
Perché, lasciata ogni opera virile,
Solo a far roba pose la sua cura,
Discernendo el menuto dal sutile;
E cum affanni, inganni e cum usura,
(Ché altrimente al dì de oggi non se acquista)
Divenne rico fuor de ogni misura:
Rico a sé solo, e poverello in vista,
Veniva da ciascun mostrato a dito
Per la miseria sua dolente e trista.
Così serbò el tesor che aveva unito:
Né già mai lo acquistato se mantiene
Da cui non pone freno a lo appetito.
Or, come sempre a tal cosa interviene,
Morte occupò Ececratide in tristicia,
Passando il spirto doloroso in pene,
E lo erede rimase cun letizia;
Questo è Timon da lui nato e disceso,
Che aponto allor uscia di puerizia.
Né ancora avendo per la etate empreso
Come si fa la libra ad oncia ad oncia
E de la libra poi se aduna el peso,
Tenendo spesa inordinata e sconzia
Procurò sì, per quella ereditade,
Che adiudicata fu sancia prononcia.
Non se avedendo prima, come accade
Di abondante divenne bisognoso,
Di bisognoso càde in povertade.
Venuto al fin mendico e vergognoso,
Vien da color schernito e discaciato
Che per lui richi vivono in riposo.
Tutto el tesor, che el patre avea lassato,
Pallagi e ville e gran possessione,
Donando a questo e a quello, ha consumato;
Et è condutto in tal derisione,
Che cum la testa e bracie discoperte
Se veste una peliza di montone.
Onde or per ira in rabia se converte,
Mena vita affannata e rencrescevole
Zappando spiagge inospite e deserte.
Guadagna el pane apena a lui bastevole:
Ma tutti e' gran dispetti questo exsupera,
Che lui fo sempre a ciaschedun piacevole,
Et or ciascun lui cacia e lo vitupera;
Così sovente aviene a lo infelice
Che spende indarno e il speso non recupera.
Però lo Arabo in suo proverbio dice:
« Chi dona aqua a la palma sancia sale,
« Fa verdi e rami e secca la radice. »
Ora Timon, condotto in tanto male,
Scorgendo omini molti ingrati e rei,
Ha preso a tuti uno odio universale.
E biasmando ancora va li Dei,
Che non struggono el mondo per vendeta,
Non guardando ad un bono o quatro o sei.
Ma eccol lui, che la sua zappa assetta
Brontolando cum seco: in sin qua lo odo.
A me convien partir, ché chi lo aspetta
Vien da lui combiatato a strano modo.
ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Entra Timone da lo altro capo del proscenio, e prima comincia a zapare, poi, intrametendo la opera, volta la facia al cielo, e dice così.
O Iove sociale et amicabile,
Domestico, ospitale e presidente
A' giuramenti, e sei tanto mirabile
Che altitonante èi detto e omniparente
Che aduni e' nimbi e per l'aria li scaci,
O se altro nome ti trova la gente,
Maximamente li poeti paci,
Quando han bisogno a l'opere più nove
Di nome che a lor rima se confaci,
Ove è la tua saetta orrenda, et ove
Nascosa hai tu la folgore diversa?
Dove è fugita la tua forza, o Iove?
Ogni tua possa in fabula è conversa
Et a guisa di fumo in su salita,
Tanto monta nel ciel che in tera è persa.
È la tua fiamma forsi intepidita,
O pur le cose di qua giù non curi,
O la iustizia vien da te bandita?
Li robatori, e' falsari e' periuri
Regnano al mondo per ogni confino,
Da la tua pena liberi e securi.
Più fia temuto un putrido stupino,
Uno estinto tizon qual possa tingere,
Che tua saetta o tuo furor divino.
Per questo Salmoneo volse confingere
Contra a te tuoni e fiaccole di foco,
Per la tua fama e tollere e confringere
E descaciarti a forza de ogni loco:
Che maraviglia, se ebbe tanto ardire
Vegendoti tornato sì da poco?
Che debio, o Iove, ormai più di te dire?
Credo sei di mandragora pasciuto,
Ché in ogni tempo ti trovo a dormire.
Non è chi speri avere alcun ajuto,
Né aspetta più da te soccorso el mondo,
Ché vechio e sordo e cieco èi divenuto.
Quando eri gioveneto e furibondo,
Volavan tue saette come piume
Strugendo e' scelerati a tondo a tondo;
Le folgore per tutto facean lume
E terremoti in ogni regione,
Ogni gozza di piogia parea un fiume;
Tal che nel tempo di Deucalione
Spandesti el mare e' fiumi in tal divizia,
Che sol restarno in terra doe persone.
O come ben purgata la tristizia
Era, s'tu non avessi riservato
Quel seme a generar magior malizia!
Ma lassa, che ben sei da lor trattato
Come tu merti, che oramai tra nui
Conosciuto non sei, non che adorato.
Né ritrovato ho un sol, o apena dui,
Che di corone te onori o di fochi,
In quante terre mai vagando fui,
Se non qualche un che a li olimpici giochi
Te offrisse; non che 'l creda necessario,
Ma per la usanza antiqua di que' lochi.
Ricòrdate quel caso atroce e vario,
Che un cicilian a te tolse el mantello,
Quel che rase Esculapio a pel contrario!
E tu ti stavi queto, o mischinello:
Vincitor de' giganti e de' titani,
Lassasti spogliarti a quel rubello.
Non incitasti almen chiamando e' cani,
Cridando al ladro: ma forsi tu dubiti
Perché e' toi sacerdoti son lontani.
Una sagitta longa diece cubiti
Fidia ti pose in mano, e dubitasti
De adoperarla a bisogni sì sùbiti!
Quando crederò mai che el cor ti basti
A punir quei che or sono al mal sì prompti,
Se a cui te proprio ingiuria non contrasti?
Quanti Deucalion, quanti Fetonti
Vorebono a delicti tanti e tali,
Per sumergere e' piani, ardere e' monti!
Ma aciò che io lassi el dir de li altrui mali,
Io, che onorai ciascun ateniese,
E gli infimi e' megiani e' principali,
E portate ho per lor fatiche e spese,
E son condotto in questa extremitate
Sol per essere a quei troppo cortese,
Schiffato sono (oh che calamitate!)
Schiffato da coloro (oh Dio! oh Dio!)
Che dovrebon basar le mie pedate.
Consumato ho me stesso e sparso el mio
Per questi ingrati, (oh perfida sciagura!),
Or son fugito come un monstro rio.
Come a le lettre de una sepoltura
Qual per vechieza è rotta ne la strata
Ciascun trapassa e di guardar non cura,
Così la vista mia vien rifutata,
Et avuta anche in odio da coloro
De' quali io foi salute alcuna fiata.
Et io vestito di pelle dimoro
Che in tal delicatecia foi notrito:
Son megio ignudo, e la terra lavoro.
Da la citate qua son refugito,
E cum la zappa el mio viver guadagno
Servendo a prezo, dove io foi servito.
Quatro danari ho el giorno, e non mi lagno
Del picol prezzo; questo almeno acquisto,
Che quivi cum alcun non me acompagno.
Poi che vi sono, uno omo non ho visto,
Né veder ni vorei, ché augel nocturno
Non mi risembra augurio tanto tristo.
Odi, o figliuol di Rea e di Saturno,
Leva su el capo, destate ora mai;
Non apri li ochii nel fulgor diurno?
Leva su, ché più somno dormito hai
Che non fece Epimenide ozioso:
Vieni e dona a ciascun tormenti e guai.
Scendi dal monte Eta forioso,
Di fiamme armato e cum toi dardi in mano,
Fa ciascun omo misero e doglioso;
Se quel che è di te deto non è vano,
Che Dio non sei, et io lo stimo certo,
Che già moresti come corpo umano:
In Crete il tuo sepolcro apare aperto.
SCENA SECONDA.
Le cortine del cielo se aprino, Jove appare cum Mercurio ne li abiti già descripti, et insieme parlano, come apare di sotto.
JOVE
Chi è colui, Mercurio, che là gioso
Tanto alto crida come disperato,
Squalido tuto, irsuto e polveroso?
E parmi che zappando stia chinato
Là dove el piano ad Imeto sogiace;
Chi pote esser costui? come è nomato?
Sia chi si voglia, è nel parlare audace,
E forsi segue la filosofia,
Ché quella setta sempre è sì loquace.
MERCURIO
Patre, che dici ? or non vedesti pria,
Che quello era Timon colitïese,
Qual ti parlava e dolsi tutavia?
Questo è colui che già gracie ti rese,
Qual ce invitava al sacrifizio integro,
E cento bovi a la tua festa spese.
JOVE
Come esser può che tanto è magro e negro?
Chi l'ha condotto in questa aversitate,
Che or tanto è tristo, e già fo tanto alegro?
MERCURIO
A questo l'ha condotto soa bontate,
Lo appetito de onor, la altrui credenza,
On sua sciocheza, a dir la veritate:
Ché, non avendo bona experienza
Del mondo falso e de li adulatori,
Distribuito ha el suo sancia prudenza.
Dato se è in preda a corbi, ad avoltori,
Né sapeva el meschin che ogni trapello
Di cotal gente è pien di traditori.
Exemplo ne è verace el tapinello,
Che ora non ha socorso da persona,
E donato ha già tanto a questo e a quello:
Ciascun el schiffa, ogni omo lo abandona,
Né alcun si cura odirlo nominare,
Né dentro Atene più se ne ragiona.
JOVE
Certo questo non è da comportare:
Né maraviglia ho già che se lamenti
Costui, che ha ben cagion de lamentare.
Ma non sarebi a quelle male genti
Simile anche io, essendo persüaso
Di smenticarmi quel che tu ramenti,
Quando il mio sacrificio era rimaso,
E costui pose cento bovi al foco,
Che ancor mi par aver lo odor al naso?
Per occupazion tardato ho un poco
A dar punizione a'scelerati
Che son moltiplicati in ogni loco,
Maximamente poi che concitati
Fòrno e' filosofanti in quella terra
Isparti in cento parte e separati.
Di silogismi e cianze è la lor guerra,
E ciascun vanegiando se trastulla,
Credendo più saper quel che più erra.
E se di nulla se genera nulla
Dicono cose piene di gran tedio,
Che tutte al fin non montano una frulla.
Posto m'hano a le orechie un tale assedio,
Che io non poteva odir da questa alteza
Né porgere a Timone alcun rimedio.
Ma va, Mercurio, e mena la Richeza,
E fa che ella non facia alcun dimoro,
S'tu dovesti condurla per la treza.
Venga giù teco, e portàti un tesoro,
E ritrovàti el misero Timone
Là dove egli è occupato al suo lavoro.
Dirai a lei, che per nulla cagione
Indi se parta, sì come far sòle,
Che questa è nostra ferma intenzione;
Né attenda a soi lamenti o a soe parole,
Perché el bono omo talor la discacia,
Credendo di far meglio, e non la vòle.
Or va, Mercurio, e questa cosa spacia;
Cum tempo ordinaremo la vendetta
Di cui l'ha posto in cotanta disgrazia.
Ma bisogna aconciar la. mia saetta,
Perché ha la ponta disferata e trista
D'allor che io fulminai cum tanta fretta,
Quando el falso Anaxagora sofista
Disputava la essenza di noi Dei,
Concludendola in nulla in fatti e in vista.
Occider lo volea, ma non potei,
Perché Pericle li oppose la mano,
Ché sempre qualche bon diffende e' rei.
Ma non percosse la folgore in vano,
Che ella gionse nel templo di Castore,
E cum roina lo distese al piano;
Così chi vòl ben far, fa spesso errore.
SCENA TERZA.
Mercurio lascia Jove in sedia e, caminando per el proscenio superiore, dice le parole che segueno, volgendo el viso a li spectatori.
MERCURIO
Pur talor giova lo essere importuno:
El fatto suo si vòl pur sempre dire,
Né aver rispetto a loco o ad om alcuno.
Ecco Timon che è posto in tal languire:
Se tacito si stava, a non parlare
Così di fame se potea morire.
Cum suo fastidioso lamentare
E cum soi cridi ha fatto un tal romore,
Che forza Iove a doverlo aiutare.
Né Dio nel ciel, né in terra è alcun signore,
Che a lo assentir non pieghi ogni dureza
A cui ritorna e chiede cum fervore.
Ma dove trovar posso io la Richeza,
Che abita el più cum la cativa gente,
Qual cum noi Dei non ha dimesticheza?
Se io seguito la Fama, quella mente,
Perché di lealtate e di moneta
Al publico parlar credo niente.
Al suon la troverò, ché non sta queta.
SCENA QUARTA.
Timone passa oltro al monte, e prima cHe vi arivi va dicendo queste parole.
TIMONE
Questo poco ha di ben la vita umana,
Che el sonno, che è similimo a la morte,
Dal tristo affanno alquanto la alontana.
La notte al sole aperte ha già le porte,
Et io dormendo scordarò tante onte
Poi che altro più non è che me conforte.
Ora io voglio passare oltro a quel monte
Per coricarmi al picolo tugurio
Che io me ho construtto a lato de la fonte.
Così mi concedesse il Dio Mercurio
Che io non sognasse alcuna vista umana:
Già non potrei veder pegior augurio.
Quale orso o tigre o qual fiera più strana
Non ha de la sua schiata conoscenza?
La aspide sola è contra a' figlii insana.
Tra quella e noi ha poca differenza,
Chi ben cercasse la natura al fondo:
Credete a me, che n'ho la experienza,
Pegior bestia de l'omo non ha el mondo.
Come Timone ha passato el monte, le cortine se chiudeno e rimandalo ove vuole la scena. Il primo acto è finito.
ATTO SECONDO.
Questo secondo acto è tuto ne la scena superiore. Mercurio conduce la Richeza a Jove, e tra loro parlano come aparerà di sotto.
SCENA PRIMA.
Mercurio, Ricchezza, Giove
MERCURIO
Ecco Richeza, de aroganza piena,
Qual ritrovata ho cum molta fatica
E ritenuta ancor cum magior pena.
Non vole ire a Timon, ché è sua nemica,
Prima vòl consumarsi e vòl perire;
La cagion non scio io, lei ti la dica.
JOVE
Perché non voli, o Richeza, obedire
A la mia voglia, a la qual non se ariscano
El cielo e li elementi a contradire?
RICHEZA
Chi vòle aver subietti che obediscano,
Sì debbe e' soi mandati temperare,
Che lo equo e la ragion non preteriscano;
Chi vuol sanza iustizia governare
Se dimostra tiranno in fatti e in detti,
Né se deve per principe appellare.
JOVE
Mal va el governo, quando da' sugetti
Vien data lege; e briglia non si trova
Sì giusta, che a ciascun sempre diletti.
Ma tu perché sei posta in questa prova
Di contrastarme e non gire a Timone?
Già non vedo cagion che a ciò te mova.
RICHEZA
Atto regale è intender la ragione:
Se ben ti contradico, in pace ascolta;
Poi se a te piace, cangia opinione.
Io foi dal patre de Timone accolta,
Tal che altra cosa non gli era rimasa
Che egli avesse più cara alcuna volta.
Ma costui poi me pinse fuor di casa
Cum tanta subitecia e tanta fretta
Come ei getasse cum le man la brasa.
Sua prodigalitate maladetta
La veste mi straciò tutta da torno,
Come egli avesse a fare una vendetta.
Ohimè, tu vuoi che a lui faci ritorno:
Come potrò durare in tanti errori?
Ché io sarò consumata in un sol giorno
In man de parasiti e de adulatori,
In man de ministrier, buffoni e paci.
Debio tornare in tanti disonori?
È farano di me mille distraci:
Ignuda già mi vedo e scapigliata;
Deh, non voler che a un ponto io me disfaci!
Mandami a qualche uno altro a cui sia grata,
Lascia star cum Timon la Povertade,
Fugita anche da quei che la han lodata.
Lascia gratarse al tristo ove gli scade,
Ché a cui non vòl aver provedimenti,
Indarno se dà ajuto, e alfin pur cade.
Dovuto è ben, per Dio, che se contenti
Di guadagnar al dì quatro danari,
Che a una ora getò già deci talenti.
JOVE
La tua querella, e' toi lamenti amari,
E ciò che hai detto ho ben considerato;
Ma a quel che fatto è già, non ho ripari.
Timone a le sue spese avrà imparato
Come sia bono el saperte godere,
E scio, che sarà de animo mutato.
Sì che va pure a lui sanza temere;
E perché parve a te disconvenevole
Quel che io comando, io non posso tacere:
Tu di natura a me par lamentevole,
E sei tanto volubile e sì instabile,
Che non si trova a te partito agevole.
Chi audì mai levitate più mirabile?
Or te lamenti perché un giovanetto
Fo di natura trascurato e labile,
E te lassata ha gire a tuo diletto;
Non ti ha per gilosia tenuta chiusa,
Né per atti de altrui preso sospetto.
E poco avanti te vidi confusa,
Cum le guanzie ambedue di pianto piene,
Porgendo avanti a me sì grave acusa:
Che sotto a chiave e che sotto a catene
Avevi fatta già longa dimora,
Serrata a la pregion cum tante pene,
Che el capo non potevi pur trar fora,
Dolendoti di questo oltro a misura,
E minaciavi de fugirte ancora.
Ma non el potevi fare a la sicura,
Per doi governator che te anoiavano:
El Computo affannato cum la Usura.
Dicevi che costor, che sì te amavano,
Facevano una cosa fuor di usanza:
Desidrando de usarti, e' non te usavano;
Ma che alcun se pascea de disïanza,
Vegliando per guardarti afflicto e smorto,
E di tocarti non faceva instanza;
Sì come el cane in guarda posto a lo orto,
Che non mangia e' poponi, e non consente
Che altri ne mangi: ogni om gli dà gran torto.
Tu ne ridevi (ancor mi torna a mente,
Che ridevi cum gli ochii lacrimosi,
Del pacio vanegiar di quella gente):
«Al suo desio, dicevi e' son ritrosi;
» Chi audì mai racontar cosa sì nova?
» Costor di se medesmi son gelosi.
»Numerando e pesando fan la prova
» Cum una lucerneta sitibonda,
» Temendo de ogni cosa che si mova;
» La famiglia proterva, a l'altra sponda,
» Quanto più pò rapisse a la nascosa,
» E gioca e se solacia e il vino abonda».
Così proprio dicesti questa cosa,
Et ora te lamenti del contrario:
Né voresti operar, né star in posa.
Chi suplirebe ad animo sì vario?
Mal chi ti lassa, e pegio chi ti serra;
E pur far lo uno o l'altro è necessario.
Meritaresti di starti soterra,
Ove natura già te avea riposta,
Perché te stessa e gli altri tieni in guerra.
Scio ben che a ciò non troverai risposta.
RICHEZA
Se la mia causa ben per te se intende,
Tu assentirai che ragionevolmente
Mi doglio, e che ciascun di lor me offende;
E sì come Timon lascivamente
Mi governava, ne ho presa rancura,
Che così poco me stimi o nïente,
Parimente mi parve accerba e dura
Mia trista vita, quando gli altri ancora
Me tenean chiusa sotto a serratura
A ciò che el loco oscuro e la dimora,
A guisa de galina che se impasti,
Più grassa me facesse de ora in ora.
Quindi ho flacidi li ochii e i denti guasti;
Né a la vendetta de que' discortesi
Veder mi par mai pena che mi basti.
Indarno longa etate sieco spesi
Né de essere oltregiata meritava,
Però che alcun de quei mai non offesi.
Pegio, che ignun di lor non mi tocava,
E me teneva cum el beco digiuno,
Mostrando ne li altri atti che me amava.
Ora tu intendi lo effetto importuno
De le due extremitate: et io non lodo
Né quel né questo e biasimo ciascuno,
Ma solamente con color me aprodo
Che sano usar misura temperata
E son discreti; e con questi mi godo
Quai non mi tengon troppo riserrata,
Ni me lasciano andar in abandono
Usandomi a' bisogni dislegata.
Deh, considera ben quel che io ragiono
Re degli Dei, intendi mia querella:
Tu sei pur mio signor, tua serva sono.
Se alcun pigliasse a moglie una dongella,
A suo diletto sieco solaciasse,
E, preso avendo el suo piacer di quella,
A tutti li altri poi la abandonasse,
Non discernendo el grande dal megiano;
Anci egli stesso amanti procaciasse
Essendo a la sua moglie ruffiano,
Conducendola fuori a tutte l'ore:
Che non la amasse io scio che sei certano,
Però che tu sciai ben che cosa è amore.
E simelmente, se a modo diverso
Prendesse una fanciulla uno amatore,
Mostrandosi di lei ferrito e perso
Pe' gli occhi combattuti e per el viso
Da color vivo in pallido converso:
Da poi prendesse sì simplice adviso,
Che mai non la tocasse in bene o male,
Tenendo ogni altro ancor da lei diviso:
Chi non el riputarebe uno animale,
Avendo in suo potere una fanciulla,
E non la usare in ciò che ella più vale?
Ché ben è pazo chi non se trastulla,
Quanto onor lo comporta, insin che pòte,
Ché ogni altra cosa al mondo torna nulla.
Ora, in conclusion, se tu ben nuote,
Tra li omini là gioso mi diletta
Chi me travaglia e non chi me percuote.
JOVE
Certo di quella gente maledetta
Che al fin raconti (io dico de li avari)
Tu ne vedi ogni dì la tua vendetta,
Né lamentar ti dèi, che in tanti amari
Affanni stano, e non hano baldanza
De ispender pure e' soi istessi danari:
Questa sua pena la infernale avanza
Di Tantal, che è nel fiume e muor di sete,
Perché di ber gli è tolta la possanza.
Né l'altre gente dimorano quete
Che te cacian da sé, ben che si dica:
Chi è senza roba, è fora de la rete.
Anci più noglia e più travaglia intrica
Colui, che de l'altrui viver conviene,
Ché in terra non è già magior fatica.
E somigliarse possi troppo bene,
Un così fatto, al misero Fineo,
Qual per la fame stette sempre in pene,
In sin che el forte sopra ogni altro deo,
(Ercule dico) li caciò dal volto
L'Arpie, che fòr cagion del caso reo.
Ora al sermon di prima me rivolto:
Io vuo' che vadi a ogni modo a Timone,
Ché io scio che adesso el troverai men stolto.
RICHEZA
Tu sei pur anche in quella opinione?
Io vi anderò, se ben chiaro discerna
La mia roina e mia confusione.
Sapi che quello insano me governa
In una corba de intrata megiana,.
E la ussita ha magior de una caverna.
Sì che me mandi ad una empresa vana:
Così presto potrei cum un cribello
Trar tutta la aqua fuor de una fontana.
JOVE
Et io te acerto: se quel poverello
Più non ristrenge el bucco de la ussita,
Sì che la intrata sia magior di quello,
Ritornerà di novo a questa vita,
Ripigliando la zappa e la pellicia:
Ché ogni dimanda non è sempre odita.
Ma pur la experienza dà notizia
Come se deba l'omo governare
Quando scappato è fuor de la tristizia.
Ora te parti e valo a ritrovare,
E Povertade scacciali da torno,
Ché insieme non potresti dimorare.
E tu, Mercurio, fa che nel ritorno
Da Mongibello e fabri abbi menati,
Che aconcino i mei dardi in questo giorno,
Perché io possa punire e' scelerati
Quai se mostrano al mondo in tanta copia
Che altri non vedo, e i bon se stan celati.
Ora convengo gire in Etiopia
Ove è facto el convito de li Dei:
Curar voglio io la mia persona propria,
Poscia cum tempo punirò li rei.
SCENA SECONDA.
Jove, levatosi di sedia, camina tanto Che passa le cortine; Mercurio prende la Richeza a mano e caminando per el proscenio e spesso firmandosi, ragiona cum lei, come aparerà di sotto.
MERCURIO
Richeza, andiamo: oh tu mi par sciancata!
Questo diffetto in te non vidi mai,
Ben scio che eri cieca e tralunata.
RICHEZA
Da lo un de' piedi sempre intrappegai,
Ma quando Iove vòl che al gir sia prompta
Calo de entrambi, e son più lenta asai.
Vedi el suo ajuto ad om mortal che monta:
Che io vo sì tarda, e mentre che un me aspeta,
Invechia, o more avanti che io sia gionta.
Ma nel partire io meno tanta freta
Che e' sogni più ligier non sono o e' venti:
Alor fugendo sembro una saietta.
MERCURIO
Io credo che me ingani o che tu menti:
Ché io ho veduti molti in tanto impacio,
Che per disagio avean la anima a' denti,
Né avean moneta per comprarsi un lacio,
Cum el qual se potessero impicare;
Poi richi son tornati in poco spacio,
E cum gran pompa se fanno portare
Cum sede de oro e carrette de avorio,
Che ei stessi credon sempre di sognare:
E per la plebe ascoltano el mormòrio
Di soa fortuna in tanta subiteza,
Né esser può questo sanza tuo adiutorio.
RICHEZA
Altro fatto è: Iove allor non me indreza,
Adreciami Pluton, ch'è el Dio de' morti,
Che sciai che el nome suo suona richeza.
Non vado alor cum questi piè distorti,
Ma, chiusa in un legato o testamento,
Bisogna che la carta via me porti.
Dal morto io vado un vivo a far contento:
El morto abandonato è in un cantone,
E sopra ha un lenciolacio attrito e lento;
Le gate intorno a lui fan questïone,
Da le ginochie in su lo han discoperto,
Né di lui se tien conto o menzïone.
Lo erede sta di fora ancora incerto,
Batendo l'ale come el rondenino
Quando aspetta la matre a beco aperto;
E vegendossi el pasto già vicino,
Ghigna sotto aqua e la carta richiede,
Cignando a lo scrivan cum lo ochiolino.
Ciascun per ascoltare attento siede:
Essendo el testamento publicato
Se fa palese a tuti el novo erede,
Quale è, o qualche parente, che ha sognato
Il morir de costui cum mille affanni,
Però che lo ha gran tempo disiato;
O qualche adulator, che già molti anni
Ha tesi e' laci a questa ereditate
E pescata l'ha infin con fraude e inganni,
O qualche servo, che in fiorita etade
Rese al patron di quella la primizia:
Or prende el merto de la sua beltate.
Qualunque sia de questi, cum letizia
Tutta mi prende, e non cura de amico,
Né di parenti in tanta sua divizia.
E cangia di sua casa el nome antico,
Fa nove insegne e di niun se cura,
E vien superbo più che io non te dico.
Lo umile quando salisse in altura,
Senza riguardo batte ogni omo a torno,
Però che de ogni cosa egli ha paura.
Ora nel mio proposto anche ritorno,
Seguendo a quel che prima io te avea detto:
Quando un rico divene in un sol giorno,
A quella roba lui non pone affetto,
Spende in cavalli e cani e meretrice,
Et abandona el freno a ogni diletto.
Li adulatori intorno a le pendice,
Per disertarlo, ben ciascun lo aiuta
E non se ne avedendo lo infelice,
La roba se ne va come è venuta.
MERCURIO
Tu dice cose che accadeno spesso,
Né il male acquisto gionge ai terzi eredi;
Ma pur mo' mi pensava meco stesso:
Quando camini sopra a li toi pedi,
Che Iove ad un te manda, e tu vi vai,
Essendo cieca a quel modo, lo vedi?
RICHEZA
Credi tu che io el ritrovi sempre mai?
Io te giuro, per Iove, in veritate
Che io prendo un per uno altro volte assai.
Né stimar che abia tanta iniquitate
Che io lasciasse Aristide per Callìa,
Lo un pien di frode e l'altro de bontate;
Ma vado brancolando per la via,
E da quella persona che mi trove
Son presa, o bona o trista che ella sia.
MERCURIO
Donque viene inganato el somo Iove,
Qual pur suol dir di dare a' boni il bene;
E in cotal forma el suo voler se smove ?
RICHEZA
Meritamente questo gli interviene,
Ché, scorgendo che io vedo così poco,
Che gir non scio se altrui non me sostiene,
E' vuol ch'io vada (ascolta che bel gioco!)
Tastando a ritrovare uno omo, a caso,
De quei che più non sono in alcun loco.
El mondo è sì de' buon vuoto rimaso
Che tra tutti cotesti che hai avanti,
Potresti e' prodi anumerar cum el naso,
Essendo pochi e' boni e i tristi tanti;
Né discernir se posson de legiero,
Ché tristecia se copre in varii manti.
Se io avesse ben la vista del cerviero,
Come trovar potrebi io mai la tracia
De la bontade, ove è perso el sentiero?
MERCURIO
Parmi che tua ragion me sodisfacia;
Ma ancor vorei sapere una altra cosa:
Come è, che a la tua fuga non te impacia
E lo esser cieca e lo esser sì dogliosa?
Perché lo andare a tasto è cum dimora,
E chi è doglioso voluntier se posa.
RICHEZA
Ma io non son cioppa e non son cieca alora;
Il corso nel partir non me è fatica
E la vista fugendo se avalora.
MERCURIO
Io non posso più star che io non te 'l dica:
Orba, sciancata e pallida pur sei,
E ciascun te ama e chiede per amica.
Io ho veduti molti, a li dì mei,
Di te sì paciamente inamorati,
Che sua vita han condutta a casi rei:
Perché a suo modo non gli hai riguardati
Se son getati da altissimi tetti,
Da scogli in mare, e morti desperati.
RICHEZA
Quanti inganati son per falsi aspeti!
Ma credi tu che li omini sì sciochi
Se possano avider de' mei diffetti?
MERCURIO
Già non son tanto occulti, o così pochi,
Che veder non li possino abastancia
Se non han, come te, turbidi li ochi.
RICHEZA
Lo error che or regna al mondo e la ignorancia
Riccopre la mia faza a tuti loro,
Facendo altro aparer per la distancia;
Et io, fingendo, ancor mi trascoloro,
Sì che la mia brutecia se nasconde,
Perché io mi pongo una maschera de oro.
Qualunque la riguarda se confonde,
E lo ochio ha sì abaliato e sbigotito,
Che el vero a la veduta non responde.
Quale omo credi tu tanto imperito
Che, vegendome ignuda e discoperta,
Non biasimasse el suo fole appetito?
MERCURIO
Or quando alcun di tua forma se acerta,
Levandoti la maschera dal volto,
Come è che alor da te non se converta?
RICHEZA
Lo omo che me apre lo uscio, è tanto stolto,
Che lascia meco entrar persone, quale
Gli hanno ogni arbitrio di caciarmi tolto.
Più sua prudenzia a contrastar non vale,
Ché cum meco è la Fraude e la Paura,
E la Aroganza matre de ogni male.
Onde a lasciarmi alcun non se asicura,
Temendo di mutar la vita usata,
Ché il cambiar suo costume è cosa dura.
La mente sbigotita et occupata
Pur me riguarda e me dovria fugire,
Ché io son da tutti e' vicii acompagnata.
MERCURIO
Qual sia la causa non saprebi io dire,
Ma ciaschedun te prende voluntiera,
Pur te lasciasti in possa ritenire.
Tanto sei lissa e lubrica e legiera
Che el retenirti è di molta fatica,
E come anguilla scappi a ogni maniera:
Ma Povertate, aversa tua nemica,
Se aprende come polipo marino,
E dove ataca a pena si districa.
Oh, pur mo' me ramenta, oh me tapino,
Che abiam scordata cosa de importanza,
Onde a venire abiam preso el camino!
RICHEZA
Qual cosa è questa? io tengo in ricordanza
Che dobiamo ire a far Timon beato:
Se ciò se adempie, avrem fatto abastanza.
MERCURIO
Pure el tesoro abiam dimenticato,
Sanza del qual non si fa mai contento
Lo omo là giù, né Dio viene onorato.
Li vasi nostri de oro e de argento
Vogliàn ne' templi, e le veste pompose
Di gemme, e rico el sacro aparamento.
RICHEZA
Non prender un pensier di queste cose,
Che io non le curo veramente un pelo,
Se ancor di Dei le avesser precïose.
Non han bisogno già de quelle in cielo,
Perché qua su non sono e' corpi offesi
Da tal cupiditate o da tal zelo.
Ma quando teco ne lo Olimpo ascesi,
Io commessi al Tesor che se stia queto,
E se io non el chiedo mai non se palesi.
Passiam dunque di là dal monte Imeto,
Se vòi che io facia una orna de or venire
Ove zappa Timone immansueto.
MERCURIO
Andiamo, che io te guido onde vuoi gire.
Le cortine se chiudeno, et è finito el secundo atto.
ATTO TERZO
SCENA PRIMA.
Entra Timone in siena dicendo le prime parole che segueno; cum lui sono la povertade e l'altre tre compagne. Sopraviene poi Mercurio e la Richeza, e parlano tra sé ne' modi scripti di sotto.
TIMONE
Per util de altrui e per mio danno
Zapai, tapin, lo altro ier questo terreno,
Che ancor guardando me rinova affanno.
Così potessi io seminarlo apieno
Di quella erba che a l'omo è più nemica,
Aconito napello, o di velleno;
O germugliasse, in loco de la spica,
Occisïone e fame e pestilenzia,
Ché non mi gravarebbe la fatica,
Pur che perisce la umana semenzia
E che io vedesse ciascuno omo in pene.
Oh, fosse el mondo posto a mia sentenzia!
MERCURIO
Seguitami, o Richeza, e atiente bene,
Che già siamo discesi a' campi bassi,
Ove è Timone, al paese de Atene.
RICHEZA
Attiente a me pur tu, ché, se me lassi,
Potrei trovare Iperbolo o Cleone;
Et avrem persa la fatica e i passi.
Se alcun de quei me tira in sua magione,
Prima potrai veder Timon decrepito
Che Iove adempia la sua intenzione.
Ma non me parve odir non scio che strepito,
Come de un ferro? eh, tràmi di paura,
Ché chi non vede teme de ogni crepito.
MERCURIO
Egli è Timon, che in una terra dura
Zappa quinci oltre, e percosso ha in un sasso,
Ché, a dire el vero, egli ha mala coltura:
Ignudo è il campo e de ogni pianta casso,
Erba o verbena sopra non vi apare,
Et ha petroso il fondo più de un passo.
RICHEZA
Questo è mal loco, e non è d'abitare,
Tu lo pòi iudicar che non sei cieco:
Costui che è paccio sol vi debbe stare.
MERCURIO
Anci Fatica e Povertade è sieco,
Et evi la Prudenzia e Tollerancia,
Gente meglior di quella che vien tieco.
RICHEZA
Partiànci adunque, ché io non ho possancia
Di por rimedio al fatto di costui:
Lo assedio ha intorno, e persa è ogni sperancia.
MERCURIO
Iove ce manda, e poi che piace a lui,
Non potrano adversare al suo mandato.
Se nosco è Dio, chi sarà contro a nui?
Io, per sua parte, gli darò combiato.
SCENA SECONDA.
La Povertate se move del suo loco suo e vien contro a Mercurio, e parlano così tra loro.
POVERTATE
Ove conduci, o Mercurio, costei,
Che cum tal continenza el passo move
Come fosse consorte de li Dei?
MERCURIO
A questo ciappator ce manda Iove
Per farlo rico e trar de afflizione,
Sì che egli è bon che tu ne vadi altrove.
POVERTATE
Ora Richeza se torna a Timone,
Poi che io l'ho tratto del fondo a la riva,
Et insignato a viver cum ragione?
Dal mar de la abondanza, ove periva,
Mi venne ignuda questa anima in bracio,
Del suo poter e d'altro ajuto priva.
Io gli ho mostrato, e cum tempo e cum spacio,
A tollerar gli assalti di Fortuna
E non si far de' ben al mondo sazio.
Et or questa sfaciata et importuna
Toglier mi debe un'alma guadagnata?
E non ha in questo già ragione alcuna.
Ahi trista Povertate abandonata,
Ogni om ti fuge, ogni om di te si dole:
Io son da ciascun canto discaciata!
MERCURIO
Risponderoti cum poche parole:
Così piaque a colui che qua ne manda,
A te convien voler quel che lui vòle.
POVERTATE
Io ne anderò, ma in qual loco, in qual banda,
Ché ciascun fugirà la mia presenzia?
Ma pur mi partirò: Iove el comanda.
Venitene, o Fatica, o Sapïenzia,
Venite tutte; forsi che una volta
Ritornerà Timone a penitenzia,
E vederà che compagnia gli è tolta,
Di me che sempre da ogni caso istrano
Ho la sua mente a bon pensier rivolta.
Cum el poco cibo lo mantenni sano,
Cum la fatica lo facea dormire,
Mostrandoli sprezar el mondo vano.
MERCURIO
Da poi ch'i' ho fatto queste dipartire,
Andiamone a Timon, che l'ora è tarda:
Pur qualche cosa se gli convien dire.
Ma vedi, che è rizato e noi riguarda.
SCENA TERZA.
Come la Povertate cum le compagne hano passate le cortine, Timone leva el capo, ché avea zappato sempre, mentre che le soprascrite persone hano parlato insieme. Ora volto a Mercurio e la Richeza, cum voce orgogliosa, dice così.
TIMONE
Dite, che seti voi gente lunatica,
Che andati intorno me facendo rotoli
Per questi rovi, dove alcun non pratica?
Chi ve ha condutti per questi viotoli,
Ove un disventurato ha suo ricovero
Tritando cum la ciappa glebe e ciotoli?
Or che veniti a molestare un povero
Laborator de altrui, un mercenario?
Che pustule vi copran sanza novero!
Né Pluton, né Minos el suo vicario,
Se me aspetati, vi potran diffendere,
Che io non vi pianti cum el capo a contrario.
Che dimorati, e che stati ad attendere?
Se io coglio e' sassi e mostro la mia furia?
Lasciami un poco questa pietra prendere.
MERCURIO
Non trar, Timone, e non ci fare iniuria,
Tu ignori a la presenzia di cui sei:
Noi sian messi di Iove e di sua curia.
TIMONE
Che monta a me se seti omini o Dei?
Ché pratica non voglio o pace vosco;
Tutti ad un modo vi riputo rei.
E questa cieca, che io non la conosco,
Ma non deve esser troppo usata a danza,
Perché va trabalando e il viso ha losco,
Qua non farà sì poca dimoranza
Che io vederò la prova per expresso
Come sapia trotare in consonanza.
RICHEZA
Mercurio, deh, per Dio, partianci adesso:
Non vedi che egli è pacio naturale,
E de umor malenconico sopresso?
A cotal morbo rimedio non vale,
Né ajuto si può dare a cui lo spreza;
Io temo non mi facia qualche male.
MERCURIO
Non usare, o Timon, tanta dureza
Verso li Dei, e tanta bizaria:
Io son Mercurio,questa è la Richeza.
Iove, di te pietoso, qua ne invia,
E vòl che grande aver possedi e dòmini;
Se tu questo dispreggi, fai folia.
TIMONE
Di voi non ho bisogno, e men de li omini,
Né de la sorte mia ponto mi lagno,
Pur che alcun non me guardi o non me nomini.
Cum questa ciappa el viver mi guadagno,
E quando el sol risplende, e quando piove,
Mala onte di ciascun, mi scaldo e bagno.
MERCURIO
Or vuoi tu che io raporti forse a Iove
Parole tanto rustice e ritrose,
A lui che nel tuo ajuto se commove?
Siano del mondo le opere nogliose,
Siano li omini ingrati, io non el distoglio;
Ma contro de noi Dei chi te dispose?
TIMONE
Né di te, ni di Iove ormai mi doglio,
Anci quanto più posso vi rengrazio;
Ma questa cieca cioppa io non la voglio.
Di costei son, Mercurio, ormai sì sazio,
E tanto sua lordezia mi fastidia,
Che più lieve mi pare ogni altro impacio.
Mia vita tenne un tempo cum accidia,
E quando mi mostrò mai più carece
Lo odio me accese, suscitando invidia.
Cum abondancia e cum delicatece
Mi destrusse la vita e la persona,
Superbo iniquo e tumido me fece.
Ma, quel che più ne l'ira me sperona,
In man de gente finta e de ribaldi
Mi pone, e poi fugendo me abandona.
Non te maravigliar che io me riscaldi,
Ché, pensando a sua falsa levitate,
Apena che io ritengo e' sensi saldi;
Ne lo opposito poi, la Povertate
Fatto ha ciascuno a me conpassionevole,
E tramutato lo odio cum pietate.
A me la trovai sempre veritevole,
E dimostrato m'ha cum qual maniera
Venga el disagio a supportare agevole.
Lei m'ha trovata una richeza vera
Qual per processi falsi, o acusatori,
O per violenzia de tiran non pèra.
Tratto m'ha de le man de adulatori;
E la speranza mia posta in me solo,
Fa che io disprezo li mondani errori.
Sì che, Mercurio, ormai levati a volo,
E torna a Iove, e dì che il mio disire
Saria vedere el mondo tutto in dòlo,
Non de esser nominato on de arichire;
Perché io conosco ben questa putana,
Che al meglio scappa e non se può tenire.
RICHEZA
Se io dico mia ragione aperta e piana
Non scio se ascolterai cum pacïenzia;
E non me odendo la fatica è vana.
TIMONE
Parla, ma breve, e cum altra prudenzia
Che li orator, quai non finiscon mai;
Tra le parole e cianze è differenzia.
RICHEZA
A me pur bisognava dire assai:
Nulla di manco considera un poco
Di cui te dòle e che cagion tu n'hai.
Onorato ti feci in ogni loco
Di magistrati e seggi e di corone,
E la tua vita tenni in festa e in gioco.
Se e parasiti e false persone
Te han posto in la miseria, ove tu sei,
Non e già mia la colpa o la cagione.
Di questo lamentar ben mi potrei,
Che da lor fuor di casa foi sospinta,
E distracti e squarciati e' panni mei.
Ma da la Povertà mi chiamo vinta,
Dapoi che cum sì bello adobemento
Te ha questa pelle a la persona cinta.
Mercurio lo scia ben che già non mento,
Che io feci a Iove sì longa desdetta
Per non ire a trovare un malcontento;
Che io scio che la miseria maledetta
Fa sempre ciascuno aspero e ritroso,
E nel consiglio dubita e sospetta.
TIMONE
Pegio fa assai, et io che el provo, el chioso:
Che el povero ad altrui rincresce e anoglia,
Et a se stesso è irato et odioso.
MERCURIO
Costui, per quanto io credo, cangia voglia;
Or va', o Richeza, dimora cum lui
Sì che da te più mai non se disoglia.
TIMONE
Iove el comanda, e così pare a vui.
Perché debio arichir? per qual peccato?
Certo già mai sacrilego non fui.
MERCURIO
Fa', Timon, quel che Iove ha già ordinato
Ché, quando altro diletto non accada,
Farai dolente almen chi te fu ingrato.
Ora convien che in Cicilia ne vada
Per trar e' fabri fuor de Mongibello;
Timone, adempie quel che a Iove agrada,
E tu, Richeza, rimanti cum ello.
Mercurio entra per machina, ascende in cielo o furtivamente se nasconde di subito.
SCENA QUARTA.
La Richeza come cieca sta sospesa e parla come se vede di sotto; poi fuggie velocemente. Timone zappando trova el tesoro, e parla come aparerà al suo loco.
RICHEZA
Io credo che Mercurio ne sia gito,
Quanto io comprendo al dimenar de l'ale;
A me convien pigliar altro partito.
Tu dunque aspetta; e lo aspettar che vale?
Meglio è che te affatichi al modo usato,
Ché lo ozio a lo acquistar se convien male.
Odi, o Tesoro occulto e sotterrato,
Vien qua di sotto, e lasiati pigliare.
Cava, o Timon, insin che l'hai trovato.
TIMONE
Zappa mia cara, or debbami ajutare,
Tràme una volta de li affanni tanti,
Che più non abbia cum altrui che fare.
O Jove, o bon Mercurio, o corybanti!
Onde è questo oro sì fulvo e lucente?
Chi lo ha apportato e posto qui davanti?
Ma che dico io? io sogno veramente,
E quando io sarò desto, cum affanno
Ritroverò carboni e foco ardente.
Questo è pure oro (io el toco e non me inganno)
Signato, rubicondo e ponderoso.
Ormai che è povro, lui se ne abbia el danno.
O sventurato oro e grazïoso,
Confortamento de l'anime lasse,
Sancia del qual non se ha bene o riposo!
Ben credo che già Iove se mutasse
Ne la tua forma, e credo non se chiuda
Cosa che el tuo poter non apra o passe.
Quale è quella dongella tanto cruda,
Che non aprisse el grembo a tale amante,
E se spogliasse, per piacerli, ignuda?
O Mida, o Creso, o oferte rutilante
Poste ad Apollo in la insula di Delo,
Che aveti voi a questo somigliante?
Né el Re di Persia a mio rispetto ha un pelo;
Io son da la Fortuna sì levato,
Che maraviglia è che io non salti in cielo.
Quivi farò una torre in megio al prato,
Ché tutto comprerò questo tereno,
Tutto, che alcun vicin non voglio a lato.
Quivi soletto e di richeza pieno
Avrò, mentre che io viva, lo abitacolo,
Quivi el sepolcro quando io verò meno.
Non mi caderà mai contrario obstacolo,
Qual cangi questa ferma opinïone,
Per forza di Fortuna o per miracolo.
Non voglio aver comerzio di persone:
De tutti e' cognoscenti e' forestieri
Un solo amico a me serà Timone.
Ben fole è che se piega de ligieri
Per lacrime de alcun quando si dole,
E chi lo aiuta ha ben pochi pensieri.
Chi crede a' dolci preghi e a le parole
Sempre inganato ne rimane al fine,
Che fede in omo più non vede el sole.
Non vuo' che legge umane né divine
Compongano tra noi, ma solitudine
Termine sola e metta le confine.
Potessi io pur cambiar similitudine,
Ché questa forma in ogni vizio avanza
Li altri animali, almen de ingratitudine.
Tribù, suffragii, e la citadinanza,
Compagnia, parentelle et amicizia
Da me stimate fian come una cianza.
La mia natura sia gravezia e stizia,
Bizaria, senestrecia e asperitate:
Di cotal cose a ogni om farò divizia.
Di queste servir voglio, e se egli accade
Che alcun se abrusi, io spargerò di sopra
Olio e pegola accesa in quantitate;
E se egli advien che alcun de acque se copra
Sì che somerso porti gran periglio,
Per suffocarlo prestarò bona opra.
Lo odio mi crescie e non mi maraviglio,
Anci esser più dovrei crudo et ostìco.
Non son Timone, uno altro nome piglio:
Misantropo me stesso apello e dico,
Ché cotal nome sol me agrada e piace,
Che interpretato è de omini el nemico.
Questo è el decreto e la legge verace
Che sola posta fia per me soletto
E serverò cum mente pertinace.
Oh come vorei io che fosse detto
Questo mio bene, aciò che ciascheduno
De invidia se crepasse e de dispetto.
Ma, come io vedo, el ciel già se fa bruno,
E già li occei cominciano a rispondere.
Meglio che io passi el monte, et è opportuno
Che io cerchi dove io possa lo oro ascondere.
Partito Timone rimane vuota la scena, Et è finito il terzo atto.
ATTO QUARTO
SCENA PRIMA
Cominzia lo atto quarto nel quale la fama ne lo abito suo entra in scena, e dice le seguente parole.
FAMA
Io son colei che publico ogni cosa,
O vera o falsa, pur che me atalenti.
E sempre volo, e mai non prendo posa.
Fama è il mio nome, e la folgore e i venti,
Occeli e tigri, di celeritate,
Verso el mio corso, son sciancati e lenti.
Prendo vigor da la mobilitate,
E radoppio la lena al caminare;
Spavento e regni e populi e citate.
Donne, che attente stati ad ascoltare,
Forsi temeti voi che io non palesi
Quel che faciti occulto e non apare?
Stati secure, perché già compresi
Che gli omini cum voi han mille torti
E vi han tradite e se chiamano offesi:
E se reputan poi scaltriti e scorti
Ridendo de le beffe che vi fanno;
Ma una sol cosa vuo' che vi conforti:
Che, se fareti a loro alcuno inganno,
Secreto lo terrò, si come io soglio,
E chi sarà gabato, suo fia el danno.
Or al presente ragionar non voglio
De alcun de questi che ascoltano intorno,
Ben che io potrebi impirne più de un foglio;
Ma vengo a dirvi sì come io ritorno
Oggi de Atene, dove io palesai
Ciò che Timon trovò questo altro giorno.
Anci n'ho detto più del vero assai,
Sì come è il mio costume e consüeto,
Ché a quel che io odo aggiongo sempremai.
E Timon, che credea starsi secreto
E vaghegiarsi lo or che avea trovato,
In questi giorni non serà quieto:
Lui serà da la gente molestato,
Ché ciascuno omo è giotissimo a lo oro
Più che la mosca a latte riscaldato.
Ma contro a mia natura me adimoro:
Mentre che mi diletta el star cum voi,
El tempo passa e perdo il mio lavoro.
Certo in tanta quïete mai non foi
Che io chiudessi per somno gli ochii mei,
Perché io non dormo e fo vegiar altrui.
Ecco Timone, e forsi prega i Dei,
Che io non palesi el ritrovato acquisto;
Ma se tacer volessi io non porei,
Ché sempre dico ciò che i' ho odito o visto.
SCENA SECONDA.
Come Timone appare, la fama se Parte, et esso dice così.
RICHEZA
timone.
Perché non scazio io da l'animo insano
La trista cura e la solicitudine,
Come scaciato ho ogni consorzio umano?
Lo affanno sempre vien cum promptitudine,
Gionge improviso cum corso di cervo,
E poi se parte a passo di testudine.
Questo oro incide ogni mio ajuto e nervo,
Questo me tien lontano a ogni riposo;
Poi che io lo presi, a lui son fatto servo.
Lassar non el posso, e de tener non lo oso
Mirabil facto e vero è quel ch'io parlo,
Che per lui vivo lieto e doloroso.
Leve modo da dire, e duro a farlo:
Ma pur da me bisogna dipartirlo,
Né ben mi cade in mente ove ocultarlo.
Tanto spavento ho, che io vergogno a dirlo;
Ma non è qua sepolto Timoncrate?
Sotto a quelle ossa ben potrò coprirlo.
O sventurata mia felicitate,
Credo che quivi ti starai sicura,
Se in alcun loco è la securitate.
Simplice è tanto l'umana natura
Che teme e' morti, e per religione
Se guarda de violar la sopoltura.
Cum qual stracheza e quale afflictione
Zappai questa orna, e poi cum quanta pena
L'ho ritenuta, e quanta passione!
Et or convien che affanni ogni mia lena
Per riponerla sotto a questo sasso,
Qual tanto è grave ch'io el sostegno apena.
Oro mio caro, o se quivi te lasso,
Come starai che alcun non te ritrove?
Ben gioso te vuo' porre al fondo basso.
Ma che vedo io? o Dio, o Iove, o Iove!
O Mercurio, o Richeza! ben ponete
Per aiutarmi tutte vostre prove!
Qua son due orne piene de monete!
Sì queto ho il mare e il vento ho sì secondo
Che, non piscando, ho i pesci ne la rete.
Chi pose qua questo oro in tanto pondo?
Credo che Timoncràte spoglia e' morti
Come faceva e' vivi essendo al mondo;
Né scio come Fortuna o el ciel comporti
Che costui morto tanto oro possiede,
E il figlio vivo è in tanti disconforti.
Filocoro, che a lui rimase erede,
Dimora a la pregione, e, mendicando,
A questo a quel che passa un soldo chiede.
Ma a che vado io li altrui danni contando?
Che monta a me se quello è in stato rio?
Così se stia, o segua pegiorando.
Lo erede a Timoncràte sarò io:
Filocoro starà ne le catene;
Quel che esser dovea suo, sarà pur mio.
Ohimè! che gente è questa che a me viene?
Già sangue intorno al cor non m'è rimaso,
E la mia vita apena se sostene.
Costor cercando van di questo vaso,
Qual ritrovato m'ho cum pene tante;
Credo per l'orme el van seguendo a naso.
E mi pare conoscer quel davante:
Gnatonide è di certo, quel porcazo
Che di losenghe e cianze è sì abondante.
Costui già fece vomitando un guazo
Ne la mia casa; e chiedendoli ajuto
Poi ne' bisogni, lui mi porse un lazo.
Or venga, che sarà lo mal venuto,
Ché, come ne la vista lo comprendo,
Festante è tutto e in riso disoluto,
Ma io lo farò partir de qui piangendo.
SCENA TERZA.
Gnatonide cum altri apariscono, ma lui solo se presenta a Timone e parla, così.
GNATONIDE
Non dissi io sempre che le opere bone
Mai non eran scordate da li Dei ?
Or vedeti la prova per Timone.
Dio te guardi, o Timon, de' casi rei,
Bellissimo e a' compagni sì piacevole,
Come a li amici grato e largo sei.
Più che el pavone assai sei riguardevole,
E come lo ermelin sei gentilissimo;
Se ciascun te ama è cosa convenevole.
TIMONE
Te struga Dio, Gnatonide brutissimo,
Fastidio di compagni e disonore,
Et a li amici avaro et ingratissimo;
Rapace e ingordo più che lo avoltore
E più lordo che el porco; oh che profondo
Pazo è colui che può mostrarti amore!
GNATONIDE
Sempre ne' scherzi fosti sì iocondo!
Ma insieme ceneremo pur entrambi,
E tu sae ben che de piaceri abondo.
Io te ho portato un canto a ditirambi,
Che la una nota in l'altra non incappa;
Andiamo, che la voce non se scambi.
TIMONE
Ciarla pur, a tuo modo, e cianza e frappa,
Che io te farò cantare una ellegia,
Tocando el tenor cum questa zappa.
GNATONIDE
Ma tu me bati; ohimè, fortuna ria!
Sarai citato ancor nanti ai prefetti,
Ché mi hai ferito e fai gran vilania.
TIMONE
Io te scio dir, se la secunda aspeti,
Sarò citato per averti morto.
Che stai? De esser batuto te dileti?
GNATONIDE
Ora ascolta, Timon, tu me fai torto:
Ma ungeme qua sopra un poco d'oro,
Che è medicina de molto conforto.
TIMONE
Se più ti trovo in questo teritoro,
Io te darò uno unguento così facto!
Ancor me aspecti, se cerchi martoro.
GNATONIDE
DEMEA
Costui, come io comprendo, al tuto è mato:
O idio, come è del sèno tramutato!
Se io me ne parto vivo, io n'ho bon pacto.
TIMONE
Or questo in sua malora se n'è andato!
Ma chi è quello altro che provar mi vòle?
Flyade certo, el calvo spelizato.
Più falso uomo di lui non vide el sole;
Sempre adulando e cum viso benegno
Chiede denari e paga de parole.
Come lodava e' mei versi e lo inzegno
Quando io foi rico! E s'io cantava forsi,
Iurava la mia voce esser di cegno.
In premio di tal lode assai li porsi,
Et avendo una figlia a maritare
Di dua talenti in dote lo soccorsi.
Lo altro giorno lo andai a ritrovare,
Che io era infermo, e feci tal richiesta
Che in cotal caso non dovea negare;
Ma lui mi disse de speciar la testa..
SCENA TERZA.
Fugie Gnatonide e Flyade fuor de li altri se tra' avanti e dice queste parole.
FLYADE
Senza vergogna, o omini sfaciati,
Che conosciti mo' Timon adesso,
Qual frenesia vi mena? o dove andati?
Gnatonide in brigata or se era messo,
Ma tractato fo ben como una bestia;
Così intraviene a li ignoranti spesso.
Nui altri certo usamo più modestia,
Ché, essendo antiqui soi familiari,
Pigliamo el tempo a non darli molestia.
Dio te salvi, o Timon! prende ripari
E ben te guarda da li adulatori,
Quai non amano te, ma e' toi denari.
Io te portava adesso, per ristori
De' danni che hai sofferto, molto argento;
Ma intendo che hai trovato assai tesori,
E tu dèi ben pensar se io son contento;
Or, poi che più non te bisogna el mio,
Daròti un bon consiglio in suplemento.
TIMONE
In vero ho de ascoltarti gran disio:
Ma fati un poco in qua per mio dilecto,
Ché tanto longe intender non posso io.
FLYADE
Ohimè, vedite questo maledecto,
Che me ha spezato el capo cum furore;
Da star non è più qui per chi ha intellecto!
TIMONE
Questo altro chi è? Demea, il grande oratore,
Scrivan a' presidenti del senato;
Che privilegio ha in man quel trufatore?
Costui fo per falsario condennato,
Né potendo pagar la qualitade
Fo posto a le pregione incatenato;
Et io pagai per lui, mosso a pietade,
Non sol la vera sorte, ma le spese:
Qual merto me ne rese, or ascoltate.
Quando el tributo de Egina si prese,
Qual tra nui citadin se parte a testa,
« Sei tu forsi (mi dise) ateniese?
» Tutti e villani, (or che vergogna è questa?)
» Vengono in frota, e pur quel stribizato
» Avanti li altri sempre mi molesta.
» Se più vi viene, io li darò un combiato
» Che non vi tornarà l'altra dimane. »
Così fui da questo omo discaciato,
E da li altri anche, a furia, come un cane.
SCENA QUINTA.
Partendosi Flyade cum la testa rotta, Viene oltre demea cum uno decreto o privilegio in mano, e come gionge presso a Timone, lo inchina, e dice così:
DEMEA
Dio te salvi, o Timon, grande ornamento
Del tuo lignagio e colona de Atene,
Scudo di Grezia e sol stabilimento.
Per tua cagion consiglio oggi si tiene;
El populo e 'l senato fan colegio
Per onorarti come si conviene.
Facto m'hano formare un privilegio:
Ben sciai che anche io de amico lo distese;
Deh, se te piace, ascolta che io te il legio:
« Da poscia che Timon, Colytiese
» Di senno e di bontate insieme adorno,
» Largo, gentil, magnanimo e cortese,
» Per farsi glorïoso al mondo intorno
» Vense nel corso, ai cesti, e la palestra,
» E li altri giochi Olympici in un giorno... »
TIMONE
El tuo parlare al ver già non se adestra,
Ché a veder cotal giochi io non foi mai;
Ben mal ti mostra quel che te amaestra.
DEMEA
Se non gli hai visto, tu li vederai;
Ma el tuto ho io per ordine notato,
E se me ascolti ben lo intenderai:
« Per la sua patria poi se è diportato
» Cum valentigia contro a li Acarnani,
» E lo exercito loro ha dissipato;
» A la bataglia, ne li aperti piani,
» De li Peloponensi, le due parte
» Occise e fece in peci cum sue mani. »
TIMONE
Quante menzogne nuoti in queste carte!
Non sciai che allor non mi volisti scrivere,
Che non ebbi arme e fui posto in disparte?
DEMEA
Non me impedir, per Dio, lascia ch'io livere.
Tu dispregi e' trionfi guadagnati,
Che equale a li altri toi voresti vivere;
Ma noi tristi saremo e tropo ingrati
Se' gesti toi non han debito onore,
E procaciam che sian remeritati:
« Oltro di questo, essendo senatore,
» Ha consigliato bene et utilmente
» A le cose megiane e a le magiore.
» Perciò el senato e 'l popul se consente,
» Le tribù tute e lo offizio Elieo,
» De adrizare una imagine al presente
» In forma de Timon, si come a deo;
» Presso a Minerva poi fia collocata
» Su ne la roca facta de Teseo.
» La folgore abia in mano, e coronata
» De raggi de oro intorno abia la testa,
» E sia da novi tragici lodata.
» Dentro al templo di Baco, a la sua festa,
» Oggi sua lode sia tracta del saco,
» Sì che a ciascun sia nota e manifesta! »
TIMONE
Ma il non è oggi la festa di Bacco!
A dirte el vero io non posso soffrire:
Chi non sarebe a tante cianze straco?
DEMEA
Ascolta pure e lassiami sequire:
» La qual celebritate per Timone
» In questo giorno se abia a transferire.
» Demea fo quel qual fie' questo sermone
» E nel senato disse la sentenzia;
» Demea, di lui parente e suo garzone,
» Che imparata ha da quello ogni scienzia;
» E Timone ha sì Iove per le chiome,
» Che nel fare e nel dire ha gran potenza. »
Questo è il decreto ch'io scrisse a tuo nome.
Un mio figlio anche ti volea menare,
E l'ho scordato, che io non scio pur come;
Già dal tuo nome el feci nominare,
E sempre vuo' che segua le tue voglie
In tutto ciò che sapii comandare.
TIMONE
Tutto oggi tu me vendi, frasche e foglie:
Non credi che io conosca e' tracti tuoi?
Tu non prendesti mai, che io sciapia, moglie.
DEMEA
Se io non la presi, io la prenderò poi,
E un figlio maschio ne trarò de subito,
E sin ora l'ha nome come vòi.
TIMONE
Se aspecti questo colpo, già non dubito,
Tu non prenderai moglie de questo anno,
Che io te farò sotterra intrare un cubito.
DEMEA
Dunque vòi tu, Timone, esser tiranno,
Batendo cotal omo? aspecta un poco:
Ancor te ne farò vergogna e danno.
Nel templo de Minerva hai posto el foco
E tratto lo oro Dei publici officii;
Ché già non l'hai trovato in questo loco.
TIMONE
Deh, omo mentitore e pien di vizii,
Credi che io tema tua lingua proterva?
Usa pur cum altri questi artificii.
Guarda se egli arde el templo di Minerva,
O se s'è egli rotto o aperto lo erario
Ove il tesor che è publico si serva.
Ma tuo costume fo sempre ordinario
Di far cum false accuse tua vendetta:
Or tuo' questa anche, ribaldo falsario.
Che guardi tu, persona maledecta?
De l'altre fanfanelle ancor te pensi?
Trista tua vita, se questa altra aspecta!
Ben sarei sancia possa e sanzia sensi,
Se io ho de li Acarnan sconficto el stuolo
E le due parte de' peloponessi,
Poi non potessi contro a un omeciuolo,
Avendo vinti e' giochi tutti quanti
Che se fan in Olimpia a un giorno solo!
Ma chi è questo altro che viene avanti,
Tanto adagiato e' passi, sì soave?
Ben lo cognosco a li usati sembianti!
Egli è Trasycle, el filosofo grave,
Che si dimostra un sancto ne la vista
E ponto di bontate in sé non have.
Come è barbuto, et ha la facia trista,
Che un Triton par dipinto, a la marina!
E tra la plebe sì bon nome aquista!
E me ricorda già che una matina
Predicò la abstinenzia cum tal voce
Che sembrava d'intorno una roina,
Mostrando quanto al corpo e a l'alma nòce
La voluptate e aver piacer del mondo:
Ché strugie lo uno, e l'altra afflige e còce.
La sera questo saco senza fondo
Cenò cum meco, ché io el volsi ricevere
A un convito magnifico e iocondo.
Un paggio mio, che li portava el bevere,
Stracò, sì spesso iterava el camino,
Ché avrebe asciuto, in tante fiate, el Tevere;
Né di aqua vi mischiava un gociolino,
Abenché a me paresse, per el vero,
Che el fiume Lete sorbisse, e non vino,
Qual tra' da la memoria ogni pensero:
Così parea che smenticato avesse
El sermon che avea fatto tanto austero.
E non sarìa persona che credesse
Le gran disonestate che egli usava,
Che a un parasito non sarian permesse.
Da ciascun lato cum el cubito urtava,
E se altri avea davanti un figatello,
Sancia aspetar inviti se 'l pigliava,
Tragualciando el bocon come uno ocello,
Che intrego giù passava per el collo,
E tenea li ochii fitti nel piatello.
Tutto un cengial, sì come fosse un pollo,
Volse davanti e tutta una gran torta,
E temeva anche non andar satollo.
Ma quel che al nostro riso aprì la porta
Fo che essendo ebriaco in qualitade
Da non andare a letto sancia scorta,
Comincia a dire de la sobrietade
Cum parole confuse e voce garba;
E 'l vin di boca tutavia li cade.
Cridando se dirochia e se disbarba
Per dir de la imondizia de' gulosi,
Avendo di sapor piena la barba.
Oh quanti inganni ha là sotto nascosi!
Però che e' vizii tutti han la sua posta
Nel scapulario a questi dolorosi.
Ma io ve scio dir, se ponto se me acosta,
Che io li trarò la polvere del manto
Cum quella ipocresia che vi è nascosta:
Costui che a li altri vuol mostrarsi un santo,
E per ambizïon solo e per pucio
De dispregiare el mondo se dà vanto!
Quanta superbia gonfia quel capucio
Quando e' reprende e' minimi e' magiori,
E mostra non temer de alcun el crucio.
Ma non scio perché tanto se adimori,
Che là sta solo, e tacito me guarda.
A quel che io credo, pur vòl che io lo onori.
Or io cominciarò, poi che lui tarda.
SCENA SESTA.
Avendo Timone parlato come apare di sopra, ne viene contra a Trasycle, che alquanto scostato da lui sta tacito; ma Timone verso esso dice così:
TIMONE
Come, o Trasycle, sei stato cotanto
Per venire a vedere el tuo Timone?
E pur monstravi già de amarmi alquanto!
TRASYCLE
Me non move a venir quella cagione
Che mosse li altri tristi poverelli,
Che han la tua roba in admirazione;
Ma io non son né fui già mai di quelli,
Né me potrian cangiar dal mio proposito
Quanti tesori al mondo son più belli.
Io non uso mangiar cibo composito,
Come fan quei che son detti felici,
A nominarli per suo nome opposito;
Mio cibo è il pane e l'erbe e le radici:
E se tal vita io lasso qualche volta,
Solo è per caritate de li amici.
O vanità del mondo iniqua e stolta,
Che più vi fa la vesta porporina
Di questa gregia che ho dintorno avolta?
Io vi ho compassion, gente meschina,
Perché non stimo lo oro o lo ariento
Più che vile alga a lato a la marina.
A te vengo, o Timon, per farti attento
Che te guardi da lo or che hai ritrovato,
Perché el suo possessor non fa contento.
La roba non fa mai l'omo beato;
Discacia via da te questo periglio,
Extingue questo foco che hai a lato!
Dolce figliolo, ascolta el mio consiglio:
Questo or, questo serpente venenoso,
Guarda, per Dio, che non te dia de piglio.
Getalo in mare el tristo doloroso
Qual per tentarti avanti ti è aparito;
Getalo in mar, se cerchi aver riposo!
Ma non passar però troppo oltro al lito,
E quando el gittarai, fa' che persona
Altri che me lo possa aver sentito.
Forse questa ragion non ti consona,
Che croli el capo e guardi stranamente?
Un'altra n'ho, se questa non è bona.
Distribuisse a la povera gente,
A cui due libre, a cui una, a cui megia,
Pur che apresso di te resti nïente.
Maximamente la povera gregia
De' filosofi mei ti racomando,
Ché chi del suo non ha convien che chegia.
Troppo a me non bisogna andar cercando,
Che poca cosa basta che mi pasca;
Ma sol per dare ad altri te adimando.
Empieme de oro almanco questa tasca,
Qual sol dua moggia tiene a la eginese,
O poco più, che io creda, ve ne casca.
O avaricia che ha le anime accese!
Così staria ciascun sancia ramarchi
Se, come io fo, temprasse le sue spese.
TIMONE
Or parti che a tuo modo ben ti carchi?
Perch'io non scio de Egina la mesura,
Attendi tu che quel segno non varchi.
TRASYCLE
O mare, o terra, o Dio de la natura!
Un saggio batte, questa anima sioca:
Né legge o libertate al mondo dura!
TIMONE
Aspetta, che più anco te ne toca;
Chinici quatro io vuo' giongerti ancora,
Per impirti la saca in sino in boca.
Ma qual gente è questa altra che vien fora?
Blescia, Gnison, Lachete, e una brigata:
Credo in Atene alcun non se adimora.
Veramente sarà la mal trovata!
Lassa che io monte a la casa del fieno,
Per trare e' sassi poi de la levata.
TRASYCLE
Non trar, Timon, che nui se ne andaremo.
TIMONE
Già non te ne andrai cotanto presto,
Che tu non porti questa teco almeno!
Costor tutti ne vano et io me resto.
Ora a prender riposo io ne vuo' gire;
Se el somno a me non viene, io starò desto:
Chi molto pensa, poco può dormire.
Partito Timone rimane vuota la scena, Et è finito lo acto quarto.
ATTO QUINTO
SCENA PRIMA
Comincia el quinto acto nel quale entra lo Auxilio ne lo abito suo, e dice le parole che segueno, cioè.
AUXILIO
Se ad alcun de li Dei che hanno potenzia,
Per tema, per bisogno o ver per uso
Vien da voi fato onor e riverenzia,
Dovristi ad onorarmi levar suso
Et inchinarmi, el capo discoperto:
Ma non me conosceti, onde io vi scuso.
Lo Auxilio sono, il qual sanza alcun merto
Vengo da povri chiesto solamente,
Ma necessario a ciascun son di certo,
Perché così bisogno ha lo om potente
Di esser servato in sua felicitate,
Come de esservi posto chi ha niente.
Ne lo animo a Timon questo non cade,
Che stima solitario esser beato,
Né aver mistier de altrui se persuade.
Falsa è questa credenza, et è ingannato:
Ciascun quantunque grande, alcuna volta
Ha pur bisogno de esser aiutato.
Ma forsi che la turba quale ascolta
Crede ch'io venga sol per predicare
E farli di proverbi una ricolta.
Anci venuto son per aiutare
Voi spectatori; e per più farvi intendere,
Quel ch'è in occulto voglio palesare:
Così potreti assai meglio comprendere
Lo effecto e il fin di questa comedìa.
Ora ascoltati, e statime ad intendere.
In quel sepolcro là presso a la via,
Ove Timon, che me fugie a gran torto,
Posto ha el tesor ch'egli ebbe in sua balìa,
Dentro vi giace Timoncràte morto,
Qual navicò nel mar de la richeza
E sancia danno si redusse in porto.
Costui, già presso a l'ultima vechieza,
Propose di soccorere un suo figlio,
Disposto in tutto a prodiga larghecia.
Così provide cum cauto consiglio
Di conservar quel che avea posseduto,
Doppo sua morte, sancia alcun periglio.
Avendo molto già del suo venduto,
Nascose lo oro in quella sopoltura,
Occulto sì che mai non fo saputo.
A certi amici soi dete la cura
Da esser sepulto là cum bona fede,
Sancia alcun lume, e ne la notte oscura.
Filocoro suo figlio lascia erede,
Et essendo a la morte già vicino,
Gemendo e lacrimando a sé lo chiede.
Et a lui dice: « Poi che il mio destino,
» Vuol che al fin vade ove ogni uom è ricolto,
» Legate ho le mie some e via camino.
» Or, se me amasti mai poco né molto,
» Su la tua fede io vuo' che mi prometa
» De venir là, dove io sarò sopolto.
» Ma intendi ben: dece anni prima aspetta;
» Questa epistola là mi porterai,
» Pònmela al capo poi che l'avrai letta.
» Nanti a quel tempo tu non la aprirai,
» Se lo amor che io te porto te è palese,
» Se io debo aver speranza in te giamai. »
Filocoro promesse, e meglio attese
A questo che a la roba a lui lassata,
Che in poco tempo tutta la dispese.
Tutta l'ha via donando consumata,
Né altro de' ben paterni ha più el gargione
Che la epistola chiusa e sigillata.
Per debiti anche è posto in la pregione;
Così captivo e de sventura pieno,
Per satisfare a le promissione
Manda un suo servo nomato Parmeno
(suo servo no, che già lo ha fatto franco)
A quel sepolcro con la litra in sieno.
Et ogi aponto el termine passa anco,
Che già propose el padre al gioveneto:
Deci anni son compiuti più ni manco.
Ma là veggio Timon, che ne lo aspecto
Vien sdegnoso e turbato come suole,
Onde io mi parto e quivi non lo aspetto,
Ché mai non dono ajuto a cui non el vòle.
SCENA SECONDA.
Come Timone apare, lo Auxilio se parte, et esso Timone viene cum sé dicendo le sotto scritte parole:
TIMONE
Il Somno, sopra a li altri Dei piacevole,
Odia la Povertate e la Richecia,
E a l'una e a l'altra è inapto e sconvenevole.
Quella non posa, nel vegiare avecia,
Che non pote el disagio sofferire,
E giorno e note a guadagnar se afrecia.
L'altra, che el guadagnato vuol tenire,
Sempre è in sospecto e teme ciò che sente,
Vive angoxiosa e mai non può dormire.
Come interviene a me, lasso dolente,
Che pensando a quelle orne che io trovai,
Non posso aver riposo ne la mente.
Tutta la note io non dormite mai;
Pur chiusi gli ochii a l'ore matutine,
Ma con travaglie e cum affanni assai.
Nel sogno doe formiche picoline
Mi parea de vedere intorno a lo oro,
Mordace in vista e prompte a le rapine.
De la paura ancor mi transcoloro,
Ché mi sembrava indarno contrestare
E non aver diffesa al mio tesoro.
Quante formiche io trovi a lavorare,
Tutte le occiderò come nemiche.
Ohimè! che gente è quella che me apare?
Di certo queste son quelle formiche
Che io vidi in sogno, onde io presi sospetti
Trovar da lor sgranate le mie spiche.
Mira come son bruni e picoletti,
Et han passo di volpe falso e lento,
E sembiante de ladri negli aspetti.
Or vengano oltre, che se io non mi pento,
Cum questa zappa li farò tal gioco
Che alcun de lor non andarà contento.
Son fermi e forsi vano in altro loco.
SCENA TERZA.
Fermasi Timone; Parmeno e Syro lentamente procedendo tra loro così ragionano:
SIRO
Tu sei franco, o Parmeno, e pur ancora
Servi el patrone antiquo; sì sei bono
Che mai non uscirai de affanni fuora.
PARMENO
O Syro, tanto più tenuto sono,
Quanto mi stringe sue benignitade,
Che non mi potrà far già magior dono:
Da servitù me trasse in libertade.
Ma se omo alcun patisse male a torto
Filocoro è quello esso in veritade,
Qual a' bisogni de altri ha tanto pòrto,
Che egli è de lo altrui fato bisognoso,
Onde io credo morir de disconforto.
Suo servo foi, e tenemi in riposo;
Et or convien ch'io el pasca a la pregione
De mie fatiche, lasso doloroso.
SIRO
Non ti dar tanta pena et afflictione:
Abi bona speranza che li Dei
Porgano a l'opre iuste guidardone.
PARMENO
Sperar non posso in casi tanto rei,
Che se per carte la fortuna bona
Me prometesse, io non li crederei.
La roba è persa, ogni omo lo abandona;
Egli è in pregione e non ussirà mai,
Tanto obligato è sopra a la persona.
SIRO
Le lacrime de li ochii tratte m'hai,
Tanto ho compassione al tuo lamento.
Ma dime: nel presente dove vai?
PARMENO
Io porto queste letre al monumento
Ove è sepolto el vechio Timoncràte;
Così lasciò, che io creda, in testamento.
Di fuor sono a Plutone intitulate,
Quel che sia dentro non posso io sapere;
Dece anni già son chiuse e sigillate.
SIRO
Faciamo donque lor questo apiacere
De aprir la legatura e la seraglia,
Poi che son state tanto pregioniere.
PARMENO
Io non lo asentirei, né a te ne encaglia;
Plutone, il Dio de' morti, è sì potente,
Che contro a lui non è forza che vaglia.
SIRO
Questo Dio de' sopolti ho per nïente,
Ché morte in omo vivo non se adopra,
E poi che 'l spirto è gito non si sente.
Ma poscia che non vòi che il se discopra
Questo secreto, alquanto me la presta,
Che io veda almen quel ch'è scrito de sopra.
PARMENO
Tu l'hai aperta, ohimè, che audacia è questa?
Consumati sarem, per Dio verace.
Oh quanto questa cosa mi è molesta!
SIRO
Ascolta come leggio, se 'l te piace:
« Timoncràte a Filocoro suo figlio
» Manda salute et abondanza e pace. »
PARMENO
La lettra vien da lo infernal conciglio
E vane a la pregion, come io comprendo;
Onde el tornare adietro è bon consiglio.
Né a carcere né a inferno gire intendo,
Ove ogni ben e ogni leticia è persa;
Ma segui pur legendo, ch'io te attendo.
SIRO
« Se la una età non fusse a l'altra adversa,
» Quella de' gioveneti prompta al spendere,
» Quella de' vechii a retener conversa,
» A me non bisognava ponto atendere
» Di guardarti la roba e di nascondere:
» Quel che allora ti tolsi, or ti vuo' rendere.
» Ma perché io credo ciò natura infondere,
» Come lo exemplo aperto se ne vede
» Ne la più parte, e non si può respondere,
» Non solo di perdon, ma di mercede
» Degno mi parve el vizio di natura,
» Perché a la etade molto se concede.
» Onde, vivendo ancor, io presi cura
» (poi che hai gitato via quel ch'io ti dedi)
» Di por rimedio a tua disaventura.
» Prende adunque queste orne, che tu vedi
» Meco sopolte, e sapii governare
» Meglio tua vita, e in tal modo provedi
» Che più non abii quivi a ritornare;
» Perché a tua posta ben venir potresti,
» Ma non creder moneta ritrovare.
» Sol le ossa mia e il loco trovaresti
» Ove fugendo te potrai coprire,
» Quando dissagio o fame te molesti:
» Questi son tanto acerbi a sostenire,
» Che non solo a' sopolcri e presso a' morti,
» Ma ne lo inferno è licito a fugire. »
PARMENO
Già sol de la speranza mi conforti.
Certo questo sperar non sarà vano,
Che qualche bona cosa non aporti.
SIRO
Se pur non l'ha trovata quel vilano,
Qual là dimora in vista sì cruciosa,
Rito in un piede cum la zappa in mano.
PARMENO
Colui non ha trovata alcuna cosa,
Ché più serebe alegro ne lo aspetto,
Et a me par persona dolorosa;
Veggiàn pur noi se vero è quel che hai letto.
SCENA QUARTA.
Li doi servi vengono verso il sopolcro: Timone li scrida cum le seguente parole, et cossì rispondono come aparirà di sotto.
TIMONE
Dove andati voi, ladri exequiali?
Voi veniti pensando un tanto excesso,
Che aveti meritati tutti e' mali.
Per spogliare un sepolcro quivi apresso
Sacrilegi veniti e robatori;
Ma ben vi punirò sancia processo.
PARMENO
Non far, bono omo: nui siamo oratori
Che portamo una epistola a Plutone;
Iusticia vuol che el missagier se onori.
Questa è comune e publica ragione,
Che lo oratore in ogni parte vada
Da lo uno a l'altro sanza offensione.
TIMONE
Anci condur se deve ove li agrada;
Poi che Pluton a lui gir vi conforta,
Cum questa zappa vi farò la strada.
SIRO
Non ce bisogna in quel viagio scorta,
Ché ogni om sa caminar andando al chino,
Né morte tiene chiusa la sua porta.
A Timoncràte che è quivi vicino
Debiamo noi le lettre apresentare:
Lui poi le porterà, che scia el camino.
TIMONE
Pur vi farò cum Timoncràte andare,
E morir a ogni modo vi conviene;
Né tuto el mondo vi potria campare.
PARMENO
Or sei tu forsi fato re de Atene,
Che e' franchi citadin tu voglia occidere,
E minaciare a li omini da bene?
TIMONE
Per poco fo che io non mi mossi a ridere!
Voi seti franchi? Io so ben che de un tristo
La servitute non se può dividere.
Non debo, Parmeno, aver mai visto
Che Timoncràte te comprò in mercato
Per dece mine, e fece un male aquisto?
Quest'altro, Syro, el qual è servo nato,
Poscia a Cremete venne revenduto;
Tristo el conobi, e sempre è pegiorato.
PARMENO
Se a Timoncràte servo n'hai veduto,
Filocoro da poi mi ha fatto franco;
Che monta a me, se tu non l'hai savuto?
SIRO
Né a me Cremete fo patrone unquanco;
Conservo è meco, e soffre molti affanni,
Subiecto come io sono, o poco manco.
TIMONE
Io conosco Cremete già molti anni,
Libero e citadino ateniese;
Lui non è servo, e scio che tu me inganni.
SIRO
Se le sue qualità non hai intese,
Io, che sieco mi sto sotto ad un tetto,
Volendo odir te le farò palese.
Colui che a molti è dedito e sugetto
Non credo io già che libero se dica,
Né lo crederà mai chi abia intelletto.
Se la dimane io surgo cum fatica,
Se Cremete svegliandomi me anoglia,
De la avarizia a lui ponge la ortica,
E fuor di letto el tra' contro a sua voglia;
Et ora al seminare è tutto intento,
Or vuol che 'l seminato se racoglia
Quindi comete la sua vita al vento,
Disposto ad aquistar per mercanzia,
Né mai de lo aquistato sta contento.
Pare a te, dunque, che libero sia
Colui che fatto è servo ad ogni vizio ?
Perché è sua sorte meglio de la mia?
TIMONE
Chi adunque è in libertà? Dammene indicio.
Le tue ragion mi sono al cor sì fisse,
Che io per me stesso non scio far iudicio.
SIRO
Libero è quel che a sé solo obedisse,
Che strengie il freno a la cupiditate,
Né la avarizia el pongie, come io disse;
Non teme el scemo de la povertate,
E non estima el colmo de richecia,
Né per Fortuna cangia qualitate;
Non cura infamia, e la fama disprecia.
Se me trovi uno a tal modo sincero,
De libertate io te darò certecia.
TIMONE
Per Ercule mio Dio, tu dici el vero,
Et in me stesso ben lo provo assai,
Ché ho già de libertà perso el sentiero.
Per mia disaventura io scapuzai
Ne la richeza, e ben fui male acorto,
Che poi riposo non ebi più mai.
Ma, certo, de lo affanno che io sopporto
Peggio mi fa, che lamentar non lice,
Ché, se io me doglio, mi lamento a torto:
Ben sapevo io che quella meretrice
Tiene in sospetto chiunque la possede,
E chi sta in tema mai non è felice.
Or io vi posi in mio mal ponto el pede,
E la pena a dritura è stabilita
A colui che ha provato e poi non crede.
Adunque io seguirò la prima vita
Che io me avea presa, inculta e solitaria,
In sin che morte la averà finita.
L'altra gente servile e mercenaria
Qual vive al mondo, avrò tutta dispetta
Che a mia natura è diversa e contraria.
Quella ora sia proffana e maledetta
Che mi farà veder persona umana,
Se morta non la mostra o in grave stretta.
In qualche monte o in qualche selva strana
Mi pascerò de' fructi che vi nascano,
E cacerò la sete a la fontana.
E quando al verno e' rami se diffrascano,
Nel tronco concavato de un gran rovero
Me faran letto le fronde che cascano,
On che in qualche spelunca avrò ricovero.
Ma vestir sancia ajuto non mi posso:
Ben è de ogni animal l'omo più povero,
Ché ogni altro nasce cum la veste adosso,
E l'omo ignudo debile e mendico
Sol de malicia e falsità riscosso.
Ma perché non facio io sì come io dico ?
Ché non scacio costor che ho qua davanti,
Dipoi che ho preso ogni omo per nimico?
Partitivi in malora tutti quanti,
Via nel mal ponto, che, se me aspetati,
Io vi farò partir con doglia e pianti.
A chi dico io? ancora ve arestati?
Io vi farò sentir come el vilano
Suol dar licencia a lo asino de' prati.
SIRO
Costui non è de lo intelletto sano,
Io me ne avedo a li atti e a le parole;
Più contender con lui sarebe invano.
PARMENO
Cum danno a' paci contrastar si sòle;
Ma el non aver Filocoro obedito
Di questa letra, me rencresce e dòle.
SIRO
Già ne la mente avea, pensando, ordito
Che noi ce nascondiamo quivi atorno,
Guardando, che costui se sia partito.
Non starà qua, che creda io, tutto el giorno;
Da poi più queti e sancia alcun periglio
Potremo a quel sepolcro far ritorno.
PARMENO
Andiamo, a me piace anche el tuo consiglio.
SCENA QUINTA.
Li doi servi se partono e poco da poi Timone, dicendo le parole che seguano apresso.
TIMONE
Pur ho scaciate queste due formiche,
Che raspavano lo oro e la mia buca;
Or vadan pur, che Dio le malediche.
Cotal fortuna a casa li conduca,
Che li fiachi le gambe al primo passo
E nel secondo lo osso de la nuca.
Voi altri che ascoltati gioso al basso,
Chiedeti, se voleti alcuna cosa,
Prima che io parta, perché mo' vi lasso.
Ben che abi l'alma irata e desdegnosa,
A voi non l'averò tanto ritrosa.
In me non è pietate al tuto extinta;
Facia di voi la prova chi li pare:
Sino a la corda che io me trovo cinta
Li presterò, volendosi impicare.
SCENA SESTA.
Partito Timone entra lo Auxilio, quale volto a li Spectatori dice così.
AUXILIO
Forse che atenti ancora riguardati
Che li dui servi a voi tornino avanti:
Ma più non ussiran, non li expectati.
Tra voi è gente onesta ne' simbianti;
Pur ne la sera, che le strade oscurano,
Mal se potria fidarse de cotanti.
Syro e Parmeno già non se asicurano
De scoprir quel tesor sanzia bisbiglio,
Né di aver vostra compagnia se curano.
Ma io, che ajuto ogni omo, e son lo Auxilio,
Et unico ristoro a malcontenti,
Che ogni cosa turbata raconciglio,
Perché io stimo far quel che ve atalenti,
Vi narerò la fin di questo gioco:
Or, se vi piace odirla, stati atenti.
Partito che sia ogni om di questo loco,
Qua se ritroveran Syro e Parmeno,
Che là nascosi stan, da longi un poco.
Il vase de Timon, che de oro è pieno,
Trarano integro de la sopoltura,
E l'orne che son sieco, più ni meno.
Queste doe orne, cum bona dritura,
Filocoro averà; quel de Timone
Tra sé dispartirano per misura.
El giovene fia tratto de pregione;
Più prodigo non fia, ma liberale
Spendendo e dispensando cum ragione.
Questi altri, sempre usati a patir male,
Saporirano el ben; chè quando viene
Richecia sancia affanno assai più vale.
Syro fia franco e viverà in Atene,
E cum Parmeno spesso ad una mensa,
Se goderano el guadagnato bene.
Chi non acquista, a la spesa non pensa;
Ma colui che in molti anni roba aduna,
In un sol giorno rado la dispensa.
Così conceda la bona Fortuna
A l'ultimo di voi, come al primiero,
Molta richecia e non fatica alcuna,
A ciò che in festa e cum minor pensiero
Sia dispensata del vostro apetito,
El qual non serva el megio di ligiero.
Et io, che son lo Auxilio, ve ne invito,
Spectando in me colui, che largo ispenda,
Che io ne rifonda un palmo per un dito.
Ma ben apra le orechie, e meglio intenda:
Se per se stesso aiuto non procacia,
Da me soccorso ponto non atenda.
A Dio vi lasso, e lui richi vi facia.
Qui finisse una Comoedia dicta Timone traducta de uno dialogo de Luciano per el Magnifico condam Mathe Maria Boyardo, stampata in Scandiano per Peregrino di Pasquali e Gasparo Crivello da Scandiano. Regnante el Magnifico e generoso Conte e Cavaliero Misiere Zoanne Boyardo Conte de Scandiano, de Casalgrande, de Arceto: et coetera
M. 500. adi 12. Feverare
EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Le poesie volgari e latine di Mattia Maria Boiardo", riscontrate sui codici e sulle prime stampe da Angelo Solerti, Romagnoli - Dall'Acqua, Bologna, 1894 ( Vedi )
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